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Trieste nel cinema (1895 - 2006) di Carlo Ventura |
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SGUARDO D'ASSIEME
Nel periodo che va dal secondo all'ultimo decennio del Novecento - per la precisione dal 1919 al 1994 - comparvero sugli schermi cinematografici italiani, e in parte marginale anche su quelli tedeschi e austriaci, una grande quantità di film i cui autori, soggettisti, sceneggiatori, operatori e registi, si avvalsero di interpreti scelti tra la marea di attori che già all'inizio della carriera o soltantopoco tempo dopo avrebbero acquisito l'aurea fama di “divo” o magari soltanto quella di “comprimario”, “spalla” o “caratterista” che dir si voglia. Ai primordi del cinema quei titoli venivano assegnati con larga approssimazione, specie nella fase del muto; ciò, per comprensibili motivi di merito che erano stabiliti esclusivamente dai produttori, quest'ultimi in principio definiti più modestamente “impresari”. A tale proposito sarà opportuno ricordare la figura professionale del regista, sorta soltanto in un secondo tempo e con la funzione prevalente di designare il coordinatore del complesso lavorio connesso alla nascita del film, il suo primo e unico responsabile nel bene come nel male. Va peraltro precisato subito che in un'opera indissolubilmente e squisitamente di gruppo, qual'è il cinema, una siffatta responsabilità dovrebbe avere più che altro un carattere notarile, diciamo pure legale, come dimostrato per esempio dal fatto che ancor oggi nei paesi di lingua inglese, Stati Uniti in primis e cioè in circa tre quarti della produzione occidentale, la figura del regista trova posto nelle locandine, di testo come di coda, con uno stringato “directed by”, spesso in minuscolo anche nell'edizione italiana e senz'ombra di quelle aggettivazioni enfatiche tanto care, invece, a certi cinema europei: quello francese, soprattutto, ma anche gli scampoli odierni del cinema italiano, quest'ultimo perennemente in crisi anche perchè ancorato tenacemente e sempre con acritica presunzione a quella sorta di oggetto misterioso che sarebbe poi l'autore del film. Chi si interessa del cinema senza cedere a preconcetti di qualsiasi moda o tendenze non ignora che in moltissimi casi il vero autore del film non è il regista ma, appunto, il produttore oppure il soggettista, o lo sceneggiatore, o il complesso degli attori professionisti che si muovono davanti alla macchina da presa.
Per comprendere appieno tale verità basta infatti ricordarsi del passato, ricondursi alle origini del fenomeno filmico, all'epoca che nel nostro Paese vide emergere sugli schermi -citiamo soltanto qualche esempio a caso, dato che gran parte della documentazione cartacea su quel periodo non esiste più o è di quasi impossibile reperimento- un Giovanni Raicevich, una Marcella Battelini o una Rita Rina. Del primo (alias John Raic) basterà qui ricordare che fu un campione di lotta greco-romana impiegato, proprio grazie alla sua possanza muscolare, in pellicole come Il leone mansueto, girato per la CINES nel 1919, cui seguirono tre anni dopo Il trionfo di Ercole e Il viaggio nell'impossibile. Di Marcella Battelini (alias Lola Salvi) bisogna spendere alcune righe in più in quanto si tratta di una figura di attrice che ben prima di alcune (non molte in verità) altre, trascorre senza soluzione di continuità dagli schermi del muto a quelli del sonoro, dai set di casa nostra a quelli hollywoodiani, per concludere la carriera sui palcoscenici del teatro di varietà. Effettivamente pare quasi sparita dalle scene, e della sua attività verso la seconda metà degli anni Venti e i primi anni Trenta si hanno notizie sempre più approssimative e discontinue. Una certosina ricerca condotta da Pietro Spirito e pubblicata a tutta pagina sul “Piccolo” del 2 gennaio di quest'anno, ne ricorda in esauriente sintesi non soltanto la carriera artistica ma in parallelo l'intera e a suo modo eccezionale vicenda umana. Nata a Trieste il 31 gennaio 1909, il caso vuole che dopo la morte del grande Valentino, nel 1926, in un concorso internazionale indetto dalla Fox per trovarne il sostituto, tra la marea di circa settantamila aspiranti tra uomini e donne e dopo le selezioni regionali e la finale a Roma, proprio lei risulti vincitrice assieme al milanese, attore oltre che cantante, Alberto Rabagliati. Ancora minorenne e accompagnata dalla mamma -ricorda ancora Spirito- ella sbarca in America nel giugno del 1928 e col nome di Lola Salvi ottiene brevi parti di comparsa in quattro o cinque film (il più importante dei quali è forse La danza rossa a Mosca con interprete Dolores Del Rio); soltanto un anno dopo, peraltro, proprio mentre sta per girare il suo primo lavoro da protagonista, il contratto non viene rinnovato alla scadenza, per l'ostilità, pare, dei produttori americani.
Rientrata a Trieste nel luglio del 1929, Marcella viene scritturata per spettacoli di varietà dapprima al cine-teatro “Fenice” e poi in vari teatri sia a Trieste che in altre città italiane, dove si esibisce nell'avanspettacolo ottenendo riconoscimenti di pubblico e di critica. Chiude a Trieste col varietà Musetto al teatro “Eden”.
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La terza stellina del muto che abbiamo citato è Ita Rina (alias Italina Tamara Kravanja) nata nel 1907 da genitori sloveni, sul set giovanissima, prima attrice già nell'Erotikon (Verso la felicità) di Stiller nel 1920, più tardi in un paio di filmetti quasi anonimi girati tra il 1927 e il 1929, Sabato inglese e Il ballerino della Casa d'Oro, per esibirsi successivamente nel celeberrimo Estasi di Machaty, anni ruggenti del cinema cecoslovacco 1933-34, accanto alla splendidamente ignuda Hedy Kiesler (poi lanciata negli Usa e nel resto del mondo come Lamarr in un sacco di colossi hollywoodiani, ottimi, mediocri e pessimi ma tutti in grado di far girare la testa al pubblico del tempo).
Iniziando con un elenco, che reputiamo esauriente anche se per forza di cose non completo, si precisa subito che esso prende in considerazione personalità triestine, goriziane, in qualche caso friulane, non istriane, dalmate, fiumane ecc. Possono esserci ovviamente delle dimenticanze, ma i nomi rappresentativi di ieri e di oggi, più alcune “promesse”, vi si trovano tutti.
Registi triestini: Franco Giraldi, Giacomo Gentilomo, Giulio Del Torre. Registi Friulani: Damiano Damiani, Alessandro De Stefani. Attori triestini: Mario Valdemarin, Livio Lorenzon, Gianni Lorenzon (suo fratello, attivo col nome di Gianni Solaro), Giuseppe Addobbati, Gianni Garko (western italiani), Marino Masè (con Visconti e nel film d'esordio di Bellocchio), Enrico Luzi, Ugo Cardea, Carlo Rizzo, Angelo Calabrese, Mario Gallina (fu il doppiatore di Jannings), Giorgio Listuzzi (Il tetto), Diego Pozzetto, Nino Krisman (prima attore e poi produttore), Mirko Ellis, Ruggero Winter (regista alla Rai-TV), nonché varie “promesse” ben presto rientrate come Roberto Miali, Sergio Candelli, Luciano Fatur, Aldo Sulligoi e vari altri. Attori occasionali si possono considerare Lelio Luttazzi( lavora anche con Antonioni), Teddy Reno, Tiberio Mitri, il già citato Giovanni Raicevich (ai tempi del muto), Tullio Kezich e Callisto Cosulich (Cuori senza Frontiere di Luigi Zampa ecc.). Attori triestini a Hollywood: Paul Henreid, George Dolenz. Attori friulani: Nico Pepe (anche regista), Antonio Centa, Nino Marchetti, Massimo Serato, Carlo Duse, Primo Carnera (occasionalmente nel cinema, nato a Sequals in provincia di Udine nel 1906 ed ivi scomparso nel 1967, primo italiano a conquistare un titolo mondiale di pugilato sconfiggendo il campione dei pesi massimi Jack Sharkey nel 1933); per il fisico poderoso e la statura eccezionale -caratteristiche che gli valsero il mito di “Gigante di Sequals”- venne sporadicamente impiegato in alcuni film in costume di Alessandro Blasetti che ebbero strepitosi consensi di pubblico, primo fra tutti quella Corona di ferro che oltre ad essere l'opera prediletta del regista ed ottenere il massimo riconoscimento alla Mostra veneziana del 1941 (emblematico il commento rilasciato dal ministro hitleriano per la stampa e propaganda Joseph Goebbels: in Italia danno al regista il Premio Mussolini, da noi sarebbe condannato alla fucilazione) costituì il massimo sforzo produttivo del cinema italiano del tempo e riuscì a dimostrare in trasparenza una sorta di anelito popolare fortemente critico nei confronti delle mire belliciste del regime. Ricordiamo per inciso il parere di un recensore equilibrato come Piero Zanotto, secondo il quale si tratta di “film strano, di pura invenzione, ambientato in un' epoca imprecisata, comunque subito dopo l'avvento di Cristo, con una scenografia, dovuta a Virgilio Marchi, dagli stili più diversi, quali il gotico, il Rinascimentale, l'azteco, il nibelungo ed altro ancora... che contiene un costante allusivo massaggio pacifista”. È da notare ancora che nell'anemico clima cinematografico si distinsero sì le pellicole blasettiane di “cappa e spada” attorno ad un trittico ideale che va da Ettore Fieramosca (1938) a Un'avventura di Salvator Rosa (1940) e a La corona di ferro (1941), senza contare l'appendice benelliana de La cena delle beffe (1941) che va anche considerata come un clamoroso caso a sé per l'exploit nazionale del fulgido seno nudo di Clara Calamai. La critica nostrana si è a lungo soffermata, diciamo anche sbizzarrita, su questi ed altri film “erotici” di Blasetti, forse trascurando oltre il dovuto quel filone intimista e “moderno” che il regista avrebbe coltivato nello stesso periodo assieme all'altra massima personalità di spicco, Mario Camerini, il cantore, per così dire, della “piccola borghesia”; in tale filone si devono a Blasetti alcuni gioielli come Quattro passi tra le nuvole (1942) e Prima comunione (1950) considerati a posteriori come vere e proprie anticipazioni del neorealismo, così come anticipazioni di film in serie che poi diventeranno mode sono le pellicole a episodi (Altri tempi, 1952 e Tempi nostri, 1954) cui seguono prodotti commerciali dignitosi ma di puro disimpegno (Peccato che sia canaglia, 1955 e La fortuna di essere donna, 1956, due autentici lanci in orbita planetaria di Sophia Loren), per cimentarsi infine col cosiddetto “film inchiesta” sui locali notturni di mezzo mondo a cominciare da quell'Europa di notte (1959) che ebbe una lunga coda di imitatori quasi sempre inferiori all'originale.
Tornando all'oggetto principale del nostro lavoro, bisogna dare la precedenza ai registri di buon nome -alcuni oggi ancor vivi e vegeti- come Franco Giraldi, Giacomo Gentilomo e Giulio Del Torre. Giraldi, nato a Comeno nel luglio del 1931, è uno dei più prolifici, e diciamo pure anche dei più completi avendo lavorato a lungo come critico cinematografico (sulle pagine del quotidiano “L'unità”) e come assistente di Gillo Pontecorvo, Giuseppe De Santis, Sergio Corbucci e Sergio Leone; esordisce nel genere western, poi passa alla regia di commedie all'italiana e quindi al cinema più impegnato tratto da opere letterarie (come La giacca verde, 1981, tratto da un racconto di Mario Soldati), dirigendo nei diciotto film che portano la sua firma il fior fiore del cinema italiano dell'epoca, da Ugo Tognazzi a Monica Vitti, Senta Berger, Luigi Proietti, Alain Cuny, Omero Antonutti, Philippe Leroy, Laura Morante, Mariangela Melato, Raoul Bova, Claudia Pandolfi, Ornella Muti, Maria Grazia Cucinotta. All'inizio, per il pudore di offrire paternità a pellicole di serie B, si cela sotto lo pseudonimo di Frank Garfield (Sette pistole per i Mac Gregor, 1966 e Sette donne per i Mac Gregor, 1967), ma quasi subito dopo abbandona il western per impegnarsi con opere di tutto rispetto (La bambolona 1969, Cuori solitari 1970, La supertestimone 1971, La rosa rossa 1973, Il lungo viaggio 1975, Colpita da improvviso benessere 1976 (conosciuto anche come Mercati generali), Un anno di scuola 1977 (film per la TV, uno dei suoi più toccanti), Mio figlio non sa leggere 1984, Il corsaro 1985, La frontiera 1997 (rivisitazione eccellente del bel romanzo di Vegliani), Avvocato Porta 1997-99, Voci 2000. Va ricordato che queste sue ultime opere, dopo La giacca verde e con eccezione de La Frontiera, sono state tutte commissionate dalla televisione).
La caratteristica più rilevante di Giraldi è che i suoi film presentano vicende e personaggi in apparente “sottotono”, vale a dire con sfumature che escludono a priori, quasi sempre, ritratti a tutto tondo e conseguentemente quelli accenti enfatici che costituiscono senza dubbio il lato meno valido del cinema italiano cosiddetto “impegnato”; ne abbiamo fatto cenno sopra.
Giacomo Gentilomo, nato a Trieste nell'aprile 1909 e morto a Roma nell'aprile 2001, dopo varie esperienze giovanili nel settore della scenografia teatrale, a ventidue anni inizia la carriera cinematografica alla CINES di Roma con Carlo Lodovico Bragaglia e Mario Mattoli; sua prima opera è il documentario Sinfonie di Roma girato addirittura in technicolor per la prima volta in Italia, nel lontano 1937, cui segue il lungometraggio Ecco la Radio dedicato appunto all'emittente radiofonica statale EIAR.
Come regista a pieno titolo realizza, tra il 1933 e il 1964 trentacinque film come regista (e in molti di questi firma anche la sceneggiatura e il montaggio) mentre in altri otto compare come sceneggiatore e montatore. Prima e subito dopo la guerra è autore unico di numerosi film presentati all'estero, tra i quali vanno ricordati Amanti in fuga (Festival di Cannes 1946) e I fratelli Karamazov (premiato nel 1948 con due Nastri d'Argento: migliore sceneggiatura a Gaspare Cataldo - Guido Pala - Alberto Vecchietti e miglior commento musicale a Renzo Rossellini). Molti altri film spaziano dalla commedia sentimentale al giallo-rosa e alla musica. Dopo la guerra si dedica ai melodrammi popolari e ai film d'avventura. La prima edizione del Festival di Locarno si apre il 23 agosto 1946 con la proiezione di O Sole Mio. Ha diretto quasi tutti gli attori ed attrici del cinema italiano della sua epoca e nel 1990 ha ricevuto un omaggio alla carriera nell'ambito del Festival dei due mondi di Spoleto.
Nei libri di cinema, anche i più seri e dettagliati, Gentilomo viene ricordato soprattutto per la cura quasi maniacale data alla scenografia e alla sceneggiatura, proprio mentre l'industria -impersonata nel suo caso dall'allora onnipotente CINES- lo “costringeva” di fatto a occuparsi prevalentemente di regia. Dopo il suo primo lungometraggio a soggetto girato nel 1939 (Il Carnevale di Venezia con la voce illustre di Toti Dal Monte, alla quale fece poi ricorso in una lunga serie di film), diventa un autentico mattatore del filone popolare di genere; dal 1940 al 1943 firma ben otto pellicole comico-sentimentali con dive e divette dei “telefoni bianchi” che rispondono ai nomi di Paola Barbara, Maria Mercader, Vivi Gioi, Mariella Lotti. La Barbara è ricordata soprattutto per il ruolo della prostituta redenta nel film La peccatrice di Amleto Palermi, la Gioi per il Nastro d'Argento conseguito con l'intensa caratterizzazione della collaborazionista in Caccia tragica di Giuseppe De Santis, la Mercader per la dolcezza romantica dimostrata soprattutto in Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica.
Nato a Trieste nel 1929, laureato in Scienze Politiche, Carlo Ventura unisce l'impegno civile (Presidente della Provincia negli anni Ottanta) all'attività di critico cinematografico e teatrale che ha svolto dal 1956 al 1971 per importanti riviste (come Trieste e Umana di Aurelia Gruber Benco). Dal 1960 al 1983 conferenziere ufficiale della sezione Spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti, nel decennio 1965 - 1975 è stato insegnante di storia del cinema all'Università Popolare di Trieste. Collaboratore di quotidiani e periodici nazionali (Il Ponte, Sipario, L'Avanti!, Momento Sera, tra gli altri), dal 1962, per circa un ventennio, subentra al critico Tino Ranieri nella rubrica giornaliera della "Terza Pagina" del Giornale Radio del Friuli-Venezia Giulia. Dal 1986 al 1994 è stato direttore del settimanale triestino La Voce Libera.
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