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TA 'L VENT DE LA SERA

di Silvio Domini

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TA 'L VENT DE LA SERAIl paesaggio tra il mare e il Carso, ovvero "la Monte", lambito dal verdazzurro alveo dell'Isonzo, che prima separa le asprezze della "grisa" dai "larghi", arati e coltivati, e poi tra questi ampio s'attarda, risalta nella poesia di Silvio Domini con profili inconfondibili, assieme a tutto quanto lo anima, ai cicli delle stagioni, agli atti degli uomini compiuti nella quotidianità semplice e ripetitiva dell'esistenza. Ma i versi non appartengono certo alla categoria del bozzettismo, del descrittivismo popolareggiante e folclorico, in quanto una vigile sensibilità divinatrice permea la sapidità semantica dell'idioma bisiàc e distilla da esso analogie e simboli con l'assolutezza di una liricità purificata e forte. Nelle modulazioni del dettato entrano i grandi temi antichi e drammaticamente moderni, anzi attuali, dell'infinito, del tempo, del rapporto tra la coscienza e il divenire, tra l'individuo e la totalità, tra il singolo e i movimenti collettivi e storici; ma l'incanto nasce sempre dalla pregnante concretezza di una parola che cattura l'attimo fuggente, coglie d'ogni minimo accadimento e d'ogni luogo, per riposto che sia, timbro e tipicità, tuttavia aprendosi a significazioni generali, tappa continuamente nuova nell'esplorazione dei moti dell'animo e del pensiero.

La scrittura di Domini viene da lontano, intrecciata a varie esperienze d'arte come la pittura e la musica, e prospetticamente si dichiara attraverso l'elenco delle opere più significative: 'Na vela curia (1973), Verdo sul tal (1976), Mazidi e sogni (1978), Lucamara (1985), Discolz pa i trozi de l'ànema (1990) e Vistù de verdo (1993), antologia che aduna testi composti fra il 1952 e il 1991, affiancati da una felice traduzione in sloveno.

Anche la più recente produzione che qui si raccoglie continua e approfondisce quella tensione espressiva che ha fatto di Domini una presenza ispirata della poesia in dialetto del secondo Novecento. Va ricordato che proprio nella poesia in dialetto si sono manifestate freschissime energie creative, che hanno conseguito, per paradosso, una comunicabilità coinvolgente e universale attraverso uno strumento linguistico d'uso circoscritto, in regressione, anzi a rischio di scomparsa; in questo territorio stazionano alcuni dei maggiori poeti contemporanei, nei quali arretra la letteratura, intesa come capzioso gioco o finzione, mentre trionfano il canto e lo stato di grazia d'un dire prezioso e autentico che chiama alla condivisione, come il lettore ben sperimenta sulle pagine di un Marin e di un Ciotti.

Silvio DominiRispetto alle precedenti sillogi, la nota dominante di questo volume, Ta ‘l vent de la sera, sembra essere data da una più assorta e scarnificata attitudine al ricordo e alla riflessione, mossa dal proposito di cogliere una immagine vera, essenzializzata, dell'io, per proteggerlo, se possibile, dal franare nel nulla, dalla separazione progressiva rispetto alla grande onda vitale, visto che agli occhi disincantati di un'esperienza annosa proprio così si prospetta il percorso esistenziale. Ma una "brama" inesausta, forse affievolita, meglio sublimata, è ancora discrimine o lievito che sbilancia le scelte, le meditate conclusioni, dalla informe plaga della notte, dall'ombra della morte, verso i giorni animati e la luce, dai "ziti" alle "vose"; è impulso che ridesta la commozione per la "verta", per la primavera che riappare e che a dispetto degli irrevocabili "zorni andadi", del "gnente" inquietante, al quale sempre più sembrano ridursi avvenire, passato e presente, postula obiettivi alti di speranza, di libertà e di pace.

Questi sono aneliti dell'anima sola o dialogante con i morti, ma sono anche progetto riproposto dentro la storia e fra gli uomini, di modo che la poesia, senza mai perdere la misura della più intima liricità, trasmette anche un respiro fraterno, un'indicazione precisa di cosa sia l'impegno assunto non per ideologia e interesse di parte, ma per vitalismo generoso, per un nitido senso di pietà verso il dolore e per netta ripulsa nei confronti della violenza prevaricatrice. Nella tramatura dei ricordi è pertanto giusto e necessario, all'inizio, incontrare episodi della guerra e della Resistenza, costituenti una sorta di basso continuo, di supporto armonico al sentire e al meditare. La mortescandiva le ore, casuale, feroce, profanatrice, in uno scenario irreale di lampi rossi, di abbaglianti coriandoli "che sgurlava pa l'aria"; schiacciava sotto il suo pugno raggelante, colpiva vicino negli affetti e nella dignità, lasciando nei sopravvissuti un turbamento esaltato, una disperazione radicale, connessa a uno straziante bisogno di palingenesi:

E par vèr la muriva
ma anca la nassiva
quela granda speranza
de un diman più bel.

Amore e morte, giovinezza e illusioni si mescolavano all'intuizione del grande dramma della storia, mentre dalla natura saliva con monito severo il disvelamento di ben altre prospettive:

L'amor fiuriva
de note
soto le ale
de morte.
E te lusiva
i oci
ai lanpi rossi
de bonbe.
Ma '1 cor bramava
la pase
soto le stéle.

Ciò che fu tensione spasmodica e lotta riaffiora nelle forme labili di delicati fantasmi. Ogni concretezza si sbriciola e svapora, oggetti e luoghi diventano sfingi indicanti l'insufficienza del reale e dell'accaduto. La nebbia d'una memoria affettuosa e stanca fa perdere l'orientamento; i vivi si fanno uguali ai morti nell'apprezzamento al vuoto, nel loro breve procedere "ta la note del tenp". Apparizioni e contiguità non sono più di un'ombra che "sbrissa / come bissa / rente al veciun de la grisa". Eppure quell'epoca torbida, coincidente con la giovinezza anagrafica, è stata la "verta dei... bei sogni"; perduta, sparita, soffocata, si ripropone come miraggio e speranza di rasserenata consolazione, come il definirsi d'un senso in mezzo alla confusa dialettica del presente, come balsamo e catarsi nell'ora di una matura consapevolezza e di una raccolta saggezza:

Po mi te go perduda,
verta dei me bei sogni!
E des mi me tardivo
ta la vana lusinga
cun quela de 'ncontrarte
ta la ultima luse
de sta serada amara.

Dopo l'immersione in un passato in fuga, definitivamente remoto, dopo il dialogo con coloro che solo qualche segno all'esterno poco appariscente, cipresso sulla fossa, o traccia agglutinata a qualche angolo, il ponte di ferro, trattiene vivi nella nascosta ferita dei rimpianti, la poesia di Domini percorre il quadrante intero della coscienza, confessando debolezze e sconforti, ma anche la persistenza di una forza morale che traspone la sempre risorgente fame di vita in una capacità vasta di sapiente accettazione e in calma attesa del trascploramento nella totalità per mediazione di morte. Nel campo sterminato dell'arsura, degli abbandoni, della solitudine, si schiudono gli indifesi germi dell'emozione solidale, dei vincoli che proteggono, della fiducia mai del tutto doma e riposta comunque nel futuro, dell'enucleazione dal passato di brividi incancellabili prodotti da slanci caldi e da delicate soste. Questo innerva al messaggio di Domini una positività consolatoria e certezze propositive, anche quando a lungo l'indagine s'attarda e s'infratta dentro la sofferenza. Esemplari di tale schema sono testi come Brusera e Ceseta de San Polet.

La sete del giardino avvolto dalla vampa dell'impietosa estate canicolare aspetta un briciolo di sollievo dal fresco della sera, come nell'uomo che molto ha vissuto gli anni affacciati sulla vecchiaia portano il lenimento contraddittorio dei ricordi:

ta '1 zito de la note, la me vita
brustulada se bagnarà de le làgreme
longhe dei recordi che renfrescarà
l'arsizia che per drento me tavana.

Il quadro esterno, immobile o animato, le variazioni o attitudini d'ora e di stagione, intensamente scolpiti in un lessico che li evoca, li esprime e li possiede senza perifrasi didascaliche, prefigurano e delineano gli stati d'animo e le impennate cognitive. Fisicamente inciso, subito illuminante, l'oggetto dichiara nel concreto la sua valenza comunicativa, il suo essere accorpato all'intuizione poetica. Così "al toc de mur / resta e snegrà dei ani" è il corrispettivo dell'uomo sopravvissuto alle sue vicissitudini, mentre la piantina di nepitella, cresciuta da un seme incuneato dal vento in una fessura della pietra cariata, materializza con struggimento il vissuto, afferma l'oscura potenza della natura e dimostra come anche nell'anima più usurata l'attesa placata del domani riprenda lena attorno al getto delle memorie che resistono. E sul piano d'un volontarismo etico, esprimente l'istanza di travalicare il male in nome dei valori della purificazione e della rinascita, nella cornice della primavera, che nell'orto incede gentile

... cun fioreti
bianchi de sarezari, zelestini
de osmarini e zai paliduzi
de erba de pòri, cun tanti verdi
s'ciopadi su le rame o ta i cantoni,

prende rilievo e centralità di rito l'azione dell'affidare alla terra una semente tutta spirituale:

...mi provo ogi matina
a semenàr cu'l spizot un do grani
de speranza, parche i me tanti afani,
cortei piantadi fondi ta la carne,
me lasse un po' de pase, un po' de vita.

Rituali, metafisici, archetipici, i riferimenti alle stagioni e alle loro atmosfere sigillano il nudo tempo degli eterni ritorni. È significativo che figurativamente ed emotivamente la primavera prevalga sull'estate calcinante, sull'autunno muto e introverso, sull'inverno che nei "canpi sgrisuladi de fredo" e bianchi di brina pur custodisce "la Iota... calda de promesse de vita". Si tratta di una "verta" pudica, rattenuta, timida, ma invincibile; essa sollecita a un "cantuz" in accordo con le canne mosse dall'acqua del fiume; attraverso il "salgar pianzolent", che si orna di una "caveada verda" e "ondeza a la baveta de marz", suggerisce "che xe ora / de credar e de sperar 'ncora". Questa primavera s'annuncia nella rosa che sboccia precoce alla Candelora, innocente e ignara di freddo e bora; ricama di biancospino in fioritura "al crust", lo spigolo, di una lunga zigzagante trincea che sul Carso rammemora l'incombere degli odi e dell'aggressività di Caino, addita le fatalità feroci degli scontri e delle distruzioni.

Ogni slancio conosce tuttavia l'esaurimento, persistente o momentaneo; i valori restano come bandiere orfane che la determinazione ha piantato in ostili lande franose o in una infida terra di nessuno. S'interrompe il cammino rinfrancante "oro le terzadure" tra i frumenti accesi a maggio dal fuoco dei papaveri e comincia un altro viaggio, sotto la cappa del "sofegaz" che affanna il respiro, giù nei meandri dell'angoscia stagnante, nel labirinto del senso d'inutilità e d'evanescenza che ci scava, ci tarma e ci umilia:

Dopo ver tant papuzà,
sfiadà, me sento e vardo indrio:
ma xe cala la sera
e no vedo più gnente.

Entro una sensazione che spaura e produce uno sgomento inerte si fissa il diagramma della faticosa rapidità del vivere, si dipinge il dileguare nel nulla di fatti e pensieri.

Il viandante s'avventura con passo e zoccoli grevi su di una sottile crosta di ghiaccio: è variazione dell'identico tema della precarietà e della sparizione. Una persuasione irrazionale, per cui mascheriamo o cancelliamo l'evidenza, ci fa procedere certi di non sprofondare, ma il tacco ferrato rompe il diafano appoggio e in un attimo diventiamo "recordi iutidi... sogni 'ngiazadi". Qui si tocca il punto più basso della desolazione: in questo scavo c'imbattiamo anche nell'altalena delle maree tra sconforto e ripresa, nella ragnatela di "ridade e pianzude", nei sedimenti delle tante "zoie" e dei "tropi luti" e del "remitur de feste e de colori". Questo mondo in tormento, questi percorsi ormai alle spalle, sono paragonabili ai nidi vuoti delle gazze, alti e visibili sui rami nel mese di marzo ancora di poche fronde:

i xe come i pinsieri
no sparidi de ieri.
Cove
svode
de speranze sgorlade.

Scatta ancora l'assillo del tempo che morde e scorre via e si confonde con il grattare del tarlo, annidato nella trave, nell'asse del vecchio mobile, insistente, implacabile a fare del "cór segadura". Ma nei "zorni curti" lo sguardo si spinge più a fondo; si volge al misterioso nero del cielo; la mano afferra il filo d'Arianna del desiderio, quello che condurrà al varco verso una luminosa fissità atemporale:

Ta le sfesadure
de la me carne,
sbregada del tenp
la note se farà alba.
Alba ciara, lusenta
e la luse sarà segnal
de 'na zornada eterna.

Per prepararsi e compiersi, il trascendimento dell'amato orizzonte, del piccolo universo dove ben addentro si sono abbarbicate le radici, "valadei de la Monte", "strade sconte", "crosare", il "zardin cu l'aleandro", ha bisogno dell'aiuto dei morti, quindi dei ricordi intrisi di pietà e di comprensione:

Chissà se lassù
ti te sinte
ste pene, sti tavani,
chissà se ti te poi mandarme
diman in regal
un poc de sol caldo.

A questo punto si aprono gli arcani e le cifrate scritture del cielo stellato:

xe de sicur parole de amor
semenade ta i larghi del tenp.

A questo punto con pudore e leggerezza si possono formulare i commiati più sommessi e carezzevoli:

Ti resta a riduzar,
sopressando cultrine
a fiori.
Làsseme
'ndar mi lavìa,
drio '1 canton
de la crosara.
Ta l'unbria longa
a spetarte.

Gianfranco ScialinoSilvio Domini ha compiuto la saldatura tra la lontana giovinezza e il presente, ricavando da tale rimeditazione sul corso dell'esistenza un testamento complesso di saggezza, confortante nonostante tutto per sé ed esemplare per gli altri. Egli infatti annota e accetta le tragedie immanenti al travaglio della vita, raffigura il progressivo farsi nulla d'ogni esistente e si nutre di questa linfa, patisce la divaricazione tra il limite e l'ideale, si cruccia per le ingiustizie eclatanti e nascoste, disseminate dovunque, attraversa le acque amare dei mancamenti interiori, ma alla fine rintraccia sempre un qualche spiraglio salvifico o s'imbatte nelle rivelazioni che guidano a una speranza temprata, intima e virile, in parte vitalismo di matrice naturale, ma soprattutto scelta etica della ragione e forza generata da un anelito di solidale intesa e di continuità con gli altri e negli altri, spezzati i diaframmi del comunicare e le barriere di tempo e di condizione.

Il dialetto bisiàc, specchio di quel mondo circoscritto che il poeta ha assunto nel cuore cancellandone i confini e facendone un universo, assicura all'espressione l'impronta d'una verità rigorosa e spoglia.

Una musica schietta percorre l'intero libretto, aliena da facili effetti, ora piana nelle trasparenze del colloquio e del soliloquio, ora dolcemente calibrata in una sillabazione rarefatta.

Le ultime liriche sono accenti di distacco dalla terrestrità, una preghiera quasi, un'onda che s'espande e sfuma nell'infinito. L'anima, sconfitta l'ultima paura, quella di morire, dotata di una seconda vista in grado di abbracciare l'umano e contemporaneamente di spingersi oltre, prima di ascendere alla "pase" e al "zito", dimensioni insondabili, sarà un breve sommesso canto "ta ‘1 vent de la sera".

Gianfranco Scialino

ghirigoro

Ritratto di Silvio DominiSilvio Domini vive a Ronchi dei Legionari (GO) dove è nato nel 1922 e dove ha svolto la professione di insegnante. Violinista, pittore e ricercatore storico, ha adottato come linguaggio della sua poesia il dialetto "bisiàc", un arcaico veneto che si parla ancora nel Territorio di Monfalcone. Alle sue liriche sono stati assegnati molti prestigiosi premi di poesia fra i quali si ricordano l'internazionale "Città di Venezia", il nazionale "Città di Thiene" e i triveneti "Cittadella", "Abano Terme", "Primavera" e "Angelin Sartori" di Verona, il "Città di Chioggia" e il "Castion Veronese". La critica nazionale lo considera come uno dei più interessanti ed impegnati poeti in dialetto del Secondo Novecento. Di lui hanno scritto con molti apprezzamenti i poeti Biagio Marin, Diego Valeri, Andrea Zanzotto, Ugo Fasolo, Dino Menichini, Bortolo Pento, Silvio Cumpeta, Dino Coltro, Mario dell'Arco, Gianni Di Fusco e i critici letterari Renzo Frattarolo, Edda Serra, Bruno Maier, Silvano Del Missier, Stelio Crise, Livio Fontana, Rinaldo Derossi, Arturo Toso, Andreina Nicoloso Ciceri, Gianfranco Scialino, Jan Zoltan e molti altri.

Silvio Domini è autore di molte opere storiche ed è coautore del grande "Vocabolario fraseologico del dialetto 'bisiàc'", Cappelli Editore 1985. Ben otto noti musicisti hanno scelto sue poesie per creare composizioni corali per coro virile, per coro misto e per canto e pianoforte, precisamente: Rodolfo Kubik, Mario Bugamelli, Cecilia Seghizzi Campolieti, Narciso Miniussi, Elio Corolli, Francesco Valentinsig, Francesco Fragiacomo e Arrigo Zorzin.

Sue poesie sono contenute in molte antologie, come ad esempio: "Antologia dei poeti delle Tre Venezie" (Plusart -Venezia 1979); I contemporanei al "Città di Venezia" (Padova 1981); "Primavera della poesia in dialetto" (a cura di Mario dell'Arco, Roma 1979, 1980, 1981); "La poesia nel Friuli-Venezia Giulia" (Forum / Quinta Generazione, Forlì 1988); "II dialetto dei Poeti" (Piovan Editore, Abano Terme 1988); "Le arti a Gorizia nel Secondo Novecento" (Provincia di Gorizia, 1987); "Poesie ad Abano" (Rebellato Editore, 1978); "Repertorio di poesia contemporanea" (Ursini Editore, Catanzaro 1993); "Storia della letteratura italiana - II Secondo Novecento" (Miano Editore, Milano 1993). Silvio Domini ha al suo attivo ben sette volumi di poesie e precisamente: "'Na veta curta", II Punto Editore, Udine 1973; "Verdo sul tai", Rebellato Editore, Padova 1976; "Mazidi e sogni", Longo Editore, Ravenna 1978; "Lucamara", Longo Editore, Ravenna 1985; "Per Biagio Marin", Longo Editore, Ravenna, 1987; "Discolz pa i trozi de l'ànema", Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Gorizia 1990; "A zercar vita", Istituto di Storia, Cultura e Documentazione, Trieste 1992. Sue poesie sono state tradotte in lingua slovena e raccolte nel volume "Vistù de verdo" per conto della Provincia di Gorizia, Gorizia 1993.

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