« LA BORA »
Dicono
che la bora non cè più, non almeno come una volta,
s'è ammorbidita, e infatti non si sente più di gente che,
costretta a venire a vivere quassù, dopo un inverno si dà
ammalata o diventa querula e finisce col trasferirsi in climi più
miti. Una volta questo discorso si udiva continuamente, e anche fuori
Trieste, una specie di leggenda, questa, della nostra città, bella
sì, ridente fra colli e mare ma... e qui la solita tirata sulla
bora, questo vento da Siberia che se non tammazza subito non è
certo perché non ci si provi, e in fondo perché mai uno
dovrebbe essere costretto a viverci in un posto così, specie se
è nato nel Sud, abituato alle brezze moderate, al sole restauratore,
agli inverni addomesticati.
Non si sente più, e qualche volta ce lo domandiamo noi stessi,
noi triestini che nella bora siamo nati e in fondo ne siamo orgogliosi
come di una forza segreta, duna testimonianza dintegrità
fisica e morale, ci domandiamo se davvero non è più quella
di una volta, o se non dipenda invece dalle mutate condizioni di vita,
il conforto dun comodo riscaldamento che ti riceve quasi in ogni
ambiente chiuso, la consuetudine dellautomobile e dei mezzi pubblici
per gli spostamenti da casa a casa, lascensore al posto delle scale.
Quando infatti si subiva la bora? Dico la si subiva senza potervi opporre
difesa. Non certo in casa, neppure in quelle più popolari, un fuoco
cera sempre, magari solo in cucina, il monumentale sparherd
intorno al quale si raccoglieva la vita invernale di tutta la famiglia,
i bambini facevano le lezioni, le nonne raccontavano le loro favole, le
mamme rammendavano e stiravano, gli uomini fumavano e leggevano il giornale.
Le abitazioni borghesi di qualche pretesa esibivano poi certe imponenti
stufe di maiolica, spesso finemente decorate, i cui sportelli di ferro
si arroventavano fino a diventare incandescenti. Le camere da letto no,
non susava riscaldarle, si diceva anzi dai vecchi che era salute
dormire nel gelo e, semmai, ai bambini e agli anziani sinfilava
tra le lenzuola lo scaldino, che da noi, non so da che lingua mutuato,
si chiamava pluzer.
Ve nera di tanti tipi, in ferro e in terraglia. In certe famiglie
si usava passare sulle lenzuola il ferro da stiro caldo. In casa mia ricordo
di avere sempre visto solo una specie di tozza bottiglia in terracotta,
dun colore rosso fuoco e lucida, con un anello per passarci il dito
senza scottarsi. Si riempiva dacqua bollente e si metteva ai piedi
del letto, poi cera tutto un gioco ad avvicinarlesi senza toccarla
finché, smorzato il bollore e attenuato per contro il gelo ai piedi,
questi si stendevano in una prolungata deliziosa carezza che conciliava
rapidamente il sonno. Già, ma quando?... Quasi mai sarrivava
per giudizio superiore a quellestrema concessione di mollezze, contrastata
dalla ferrea regola che il letto bisogna scaldarlo col corpo, e specialmente
i giovani che hanno il sangue caldo, e magari col proprio fiato, questo
sì è salute!
Ma proprio in quelle notti gelide, raggomitolati tutti sotto le coperte,
ricordo lurlo della bora che scuoteva la casa dalle fondamenta e
faceva trattenere il respiro. Ebbene, era una sensazione piacevole, non
certo di ansia o disagio. Lattesa di andare a letto era più
intima nelle notti così, e cera in tutti, evidentissima,
una sorta di esilarazione, come per una prova straordinaria alla quale
ci sentivamo preparati e che ci avrebbe visti lindomani vittoriosi.
E come non ricordare le corse a scuola, imbacuccati nei grossi cappotti
e con le sciarpe di lana che ci avvolgevano come mummie dal petto alla
testa! Non respirate era lordine materno, e intendeva
ovviamente non respirare a bocca aperta, non tirare giù la sciarpa.
Ma sì! ... Io non la potevo sopportare la lana sulla pelle, e immaginarsi
quella sorta di bavaglio! Fra laltro, si bagnava subito e quel pelo
caldo e umido mi dava un invincibile ribrezzo. Strappavo giù la
sciarpa appena dietro langolo e respiravo a pieni polmoni, prima
mera parso di soffocare ora avevo voglia di correre, avevo sempre
voglia di correre nella bora. E di gridare, tra un refolo e laltro
che si portava via la voce come una foglia secca sbattendola sui muri
lontani donde rimbalzava allinfinito.
Eravamo tutti rossi in viso, felici, noi ragazzi. Questo era la bora per
noi: corse pazze a strattoni e spinte, una lotta e un divertimento. Una
mattina, dopo una di queste notti tumultuose, ci affacciamo alla finestra
e guardiamo giù: di fronte si apriva il giardino pubblico, alberi
centenari, giganteschi platani e ippocastani che alzavano le loro braccia
smisurate fino al nostro altissimo quarto piano. Ebbene, la bora ne aveva
schiantato uno proprio lì davanti, fino alla base, una cosa mostruosa
a vedersi, questo gigante abbattuto, innaturalmente orizzontale, aveva
schiacciato linferriata, e occupava parte della strada bloccando
il passaggio del tram, rami e stecchi con grandi squarci sparsi dappertutto.
Questo era la bora: tegole che volavano, camini divelti, una volta, nel
ventinove, addirittura una motrice del tram rovesciata in riva la mare,
e limmenso fumaiolo della Dreher decapitato.
Ora non cè più, dicono, ora i ragazzi vanno a letto
col termosifone, si alzano la mattina nellappartamento tutto caldo,
zampettano a piedi nudi sulla moquette e vanno a scuola in macchina. Non
cè neanche bisogno del cappotto e infatti non lo portano
quasi più. E negli uffici fa fin troppo caldo, e a parcheggiare
la macchina si suda, dovè questa bora?
È. Io la conosco e la frequento. È quassù in Carso,
donde non lhanno potuta cacciare. Ci cammino dentro, la urto di
spalla, ne vengo urtato, mi mozza ancora il fiato se la prendo di petto.
Cè sì, ma forse sè un po ritirata,
bisogna venirla a trovare quassù, sebbene di quando in quando faccia
ancora la sua visitina anche giù dal ciglione, in città.
Un giorno esco di casa, ed è una di quelle mattine rattrappite
dai refoli, sempre più rare ma ce nè ancora, e vedo
gente accoccolata per terra proprio come una volta.
A un tratto da dietro un angolo, come uscendo da un quinta, mi passa davanti
sparato un distinto signore di mezza età, il cappello schiacciato
sulla testa dalla mano aperta, ma non eretto e magari a gran corsa sotto
la spinta della bora, no, lo vedo a mezza altezza, le gambe tese in avanti
in posizione seduta, forse a un metro dal suolo, uno spettacolo strabiliante!
Suppongo che avesse tentato di accucciarsi al primo impeto dun refolo
e in quellattimo fosse stato divelto dalle fondamenta. Planò
con molto garbo sul suolo ghiacciato e da seduto continuò a scivolare
per un pezzo. Dunque, cè o non cè questa bora?
Be, diciamo che cè sempre meno gente che ama sentire
sul viso e sulle spalle la sua rude carezza. Un vento gagliardo al quale
noi triestini non vorremmo proprio rinunciare, e non solo per una questione
di campanile, ma anche, ormai, perché dobbiamo a lei se la nostra
città è immune dallo smog, se laria che respiriamo,
per merito di questa inesausta scopa celeste, ci consente ancora cieli
immacolati che poche città nel mondo si possono più permettere;
cieli, per chi sappia levare qualche volta lo guardo al di sopra delle
miserie terrene, che inebriano e sollevano lo spirito come un vino frizzante.
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