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Rampigada dentro

di Daria Camillucci

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RAMPIGADA DENTROLe parole triestine e vere, che si cercano e si legano nelle liriche di Daria Camillucci, sembrano giungere come le onde da favolose distanze marine; sono leggere come i refoli delle brezze, mutevoli nelle ore del giorno, o improvvisamente brusche come lame di bora che tagliano il volto. Ci scorrono davanti i fogli di un purificato diario che racconta i segreti vincoli che stringono chi lo ha vergato a una città e alla vita in essa incastonata.

I versi, allentati, spezzati, con stupore e commozione sillabati e ricomposti infine nel fluire di una musicalità semplice e accorata, vengono attraversati da una iridescente luce, sublimazione memoriale di sensazioni forti e nette, nelle quali riposa il senso di un destino e dalle quali proviene una sempre ritemprata energia, riconducente all’amore come atto affermativo di positività esistenziale. Essi sono mescolati con i colori del golfo e del monte, morbidi, crepuscolari, notturni e cupi, abbacinanti, sfumati, tra loro confusi o distinti con pulizia, a seconda del clima e delle stagioni, e questi colori, uniti agli odori e ai rumori provenienti da strade e luoghi nominati con tenerezza, fanno Trieste, volitiva architettura umana deliberatamente incuneata in una nicchia di esaltanti contrasti, di cui il primo, quasi archetipico, si coglie nell’abbraccio tra la pietra e l’acqua, nello scontro tra la rocciosa persistenza e la salsa mobilità.

Daria Camillucci ascolta e discopre per gradi se stessa attraverso un filtro rappresentato dalla città e dal suo mare, "rampigadi" in lei, così come la sua esistenza è "rampigada" in loro. La specularità evolve in identità e il catalizzatore di questa fusione è il dialetto, umile e cordiale, che si eleva a inusitate trasparenze di comunicazione, si fa rete d’argento che trattiene i ricordi e salva quegli attimi in cui più acutamente premono nell’interiorità le cose divenute simboli e quadrante del nostro avventuroso vivere.

Un "zigo de vento", un "lusigar tremante" possono essere il richiamo da seguire per giungere alla rivelazione di fremiti nuovi o per ritrovare il passato e farlo ascendere ancora alla luce, fresco, salvandolo dalle insidiose ombre dei fondali dell’oblio. La poesia vuole trasmettere e condividere queste scoperte e questi recuperi, diventare la custode riservata e affidabile della ricchezza del quotidiano, lucerna che rischiara i passi fino al termine del viaggio: "e ciacolar / cussì / de tuto e niente / e / spetar insieme / la note."

L’esplorazione è fisica, topografica, perché va a sondare e risondare posti amati verso i quali il desiderio sospinge, ma i dati raccolti non restano materiale inerte di una cronaca documentaria: sono subito trasposti nella zona delle emozioni illuminanti e vanno ad arricchire la non visibile mappa del cuore.

Il tocco realistico si essenzializza, intrecciandosi con le affabulazioni e i miraggi dei sentimenti, assorbendo i ricordi, lasciandosi sorprendere dall’intensità del presente.

La "cità vecia" esibisce la sua natura di madre della continuità e delle tradizioni negli anziani che la popolano, "tochi de vita che passa"; il "borgo teresian" protende le sue vie come "languide ongiade / tra cielo e mar"; l’Ausonia, mentre la sera si nasconde nel mantello della notte, diventa la protettiva cornice di un furtivo preludio d’amore: "Le tue man / che cori / e se ferma / come / luci sul mar." Il Molo Venezia è un avamposto, dove ci si trova sospesi tra "mar / e un taser seco / de vento / che svola / bianco / tra le barche"; la "stazion maritima" evoca il drammatico affollamento degli esuli partenti per terre lontane "sognando canguri"; la "piaza grande" possiede una nobiltà particolare, nella quale convivono in originalissimo equilibrio familiarità e alto decoro "co Micheze e Jacheze / e / la vecia dei scartozi / anche ela monumento." Il Savoy, evocatore di eleganze e di fasti perduranti, ma soprattutto trascorsi, è "pergolo / de vento / brazo verto / su sbrufade de mar"; le "rive" nella notte si dissolvono e si confondono con il buio delle parlottanti acque, mentre in una atmosfera surreale rare voci e stridori bucano la "nebia / che cala / e tuto scondi"; Ponterosso tenta di accendersi di vivaci cromatismi e trae vigore per i suoi fervori di scambi, di incontri, di consuete e minute contrattazioni, dalle raffiche che scendono dall’altopiano, scivolando inaspettate tra i palazzi: "bora de capuzi / che tasi / ranzida / su montagne de / jeans / scolorai / come / fazoleti nel ciel". Via Giulia offre occasione perché la memoria imbocchi nei suoi tracciati una subitanea conversione dai connotati proustiani; basta proferire il nome di quella strada, è sufficiente una fugace occhiata alla sua grigia prospettiva, perché imperiose si stringano alla mente, scuotendola, turbandola, sensazioni evase dal tempo sepolto, ritornanti come amiche apportatrici di nostalgie e dell’illusione che da qualche parte resti almeno l’aura del vissuto:

Xe de colpo
ricordo de pan
in tel porton
e fora
fregole de neve
che el naso
sponzi

 

e mi
col scartozo
grande

grande
e calor special
de casa mia.

Il viaggio minimo e inesauribile che si modella sulle necessità di ogni giorno e varia ubbidiente all’ insorgere delle passioni, e si attarda a riscoprire angoli consueti, rigenerati dagli agguati felici dell’amore, risale l’"Acquedoto", dove risquilla "la vose / de gelato", guadagna l’aspro ciglione carsico, dove le tenere doline stanno accanto a "crepe e frature / de piera", dove l’anima si attarda in "ogni osmiza / sconta drio /una carafa / de teran". Il raggio del peregrinare non è ampio, va da Sistiana a Muggia; la viaggiatrice si specchia nei vortici verdi del Timavo liberati dalle tenebre, ascolta il "ciacolar de le ginestre", si graffia in Val Rosandra, dove gli strapiombi "se strenzi / e se ciapa / dove mori / un ghiaion"; sogna a Miramare sotto "ragi polverosi / de luna / e / vento / sui rami insanguinai.

L’andirivieni è ininterrotto e sempre necessario, perché gli spazi mutano con il variare degli stati d’animo e mai quello scenario si blocca in una forma definitiva. Il centro di gravità comunque, il fulcro delle micropartenze e dei microritorni resta la città, sirena e sorella, verso la quale si tuffa il tram di Opicina, sballottando i trasportati in una corsa ilare e rumorosa:

Sburtoni
e
curve

sui sentai
de legno
e
col fià in gola
Trieste

che cori incontro
tuta un lusigar.

Si torna sempre al punto donde si è mossi; si cerca il porto per guadagnare la pace, il riposo che risucchia nella totalità: giunti, ci si lascia cullare tra "barche / scavade / de luna ruzine", si cammina smemorati su "tapedi de medusa / nel fondo de la note".

L’amore è "ferza del paleo" d’ogni ricerca, d’ogni inquietudine, d’ogni gioia, per cui di queste poesie esso costituisce l’ordito, le accompagna e le motiva da capo a fondo, raccontato e rivissuto ora con baldanza giovanile, "me piasessi esser / una puledra / e pensar de meno", ora con struggimento, "rimbalza / tuto quel che de ti / me manca", talvolta con disincanto, "xe una remenada / sto amor! / Amor che me sbianchiza / co promesse incrostade / de fiaba", talaltra con fuoco, "semo stai / farfala / e fior / ne la stanza... e quando / se semo spacai / noi / come le finestre / erimo oci / in un mar / de lampare."

La poetessa sigilla con una breve cifra di confessione questa raccolta di versi: "mi son una naranza / de spighi / grampai / su / un abain", espressione che suggerisce la composita unità di una natura contemplatrice; quindi evidenzia il chiasmo pulsante in lei delle contradditorie note dell’esistenza che dagli oggetti salgono, esprimendo il groppo indissolubile di allegrezza e pena che ci lega alla vita: "mi son cussì / come le robe che vardo / un poco dolze / e un poco garba / come do ore de sol / brusado / e come ogni longa ora / triste / del nostro / trasparente / inverno de bora".

Ammaliata dall’onda che morde o accarezza instancabile la scogliera, turbata dalla scogliera che frange e respinge l’assedio, "una piera smagnada / che el marino divora", Daria Camillucci si chiede il senso dell’ostinata ripetizione di un movimento che sempre retrocede nel nulla, che sembra un delirio interminabile, materializzazione fisica del succedersi delle generazioni, misteriosa monotonia di una cosmica altalena; alla risposta esaustiva non può certo arrivare, ma addita se non altro un modo empirico per sottrarsi all’ipnosi prodotta da questo tragico moto eterno, in cui il caso convive paradossalmente con la necessità: consiste in un esercizio di protezione e di pietà che si esplica per virtù di ispirata parola, ma umile e onesta:"ciapo / quel momento / mio / e / tuo / de giovineza / e / come un fior / lo pozo / su una pagina".

Ciò che irrimediabilmente scorre, in questo modo non dispare, resta come un frullo gracile di passero che nel petto prigioniero si agiti, rianimando quanto vi è custodito. La parola ridesta il bene e il male, ricruenta ferite e le ricopre di balsamo, modula in cento cadenze il lungo inappagato vagheggiamento rivolto alla vita.

Daria CamillucciAttraversando fiduciosa le foschie delle delusioni, scrostando la ruggine del dolore, eludendo la solitudine, vincendo i momenti di angoscia e di greve inerzia, Daria Camillucci consegna al lettore la sua vicenda di affetti che trascolora in un suggerimento cordiale e generoso, volendo insegnare la conquista della interiore pacificazione: confondersi con le verdi-azzurre vastità marine, abbandonarsi al vento, ricaricarsi di gioventù in quell’angolo di mondo unico e amato che si chiama Trieste: "E quando / (che te piasi o no) / in sto canton te torni / come per magia / Ti / vecio come el mondo / te ritrovi tuta / la tua mularia."

Gianfranco Scialino


Daria Camillucci è nata a Trieste, città nella quale vive e lavora come giornalista. Nel 1979 ha pubblicato una raccolta di poesie in vernacolo, intitolata "Ortighe e un fior". Ha pubblicato liriche in italiano su "Lunario nuovo", con prefazione di Stelio Mattioni, altre poesie sono state pubblicate in "Nuovi argomenti". Altre ancora sono apparse nell'antologia della Forum "La poesia nel Friuli Venezia Giulia", e "La poesia in dialetto a Trieste" (Damiani & Grisancich, ed. Svevo), nonchè nella rivista culturale "La battana". Daria Camillucci ha vinto ed è stata segnalata per parecchi premi in ambito nazionale, sia per la poesia che per la narrativa.

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