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POESIA
La valle di Gerald Parks |
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Stretto nella morsa del male, del dolore, chiuso nel carcere dei suoi limiti, l'uomo sprofonda nell'angoscia. Da se stesso sospinto oltre il territorio delle orgogliose conoscenze accumulate in millenni e millenni di civiltà, il pensiero si avventura e si smarrisce con ostinazione braccando una risposta esaustiva che metta tregua alle sue sempre ritornanti inquietudini, ma da tale assunto recede ogni volta puntualmente smarrito e confuso davanti all'indecifrabilità dell'essere e dell'esistente, che si sottraggono all'ultimo o definitivo disvelamento. La morte come destino segnato, le sofferenze fisiche e inferiori, le perfide malizie dell'ingiustizia, le violenze torbide o lucidamente programmate, che esplodono dovunque, cingono d'assedio la coscienza, aprono brecce di ferite lancinanti, destabilizzano e inducono allo sconforto, a dichiararsi sconfìtti di fronte alla marea limacciosa che ripete, uno sull'altro, i suoi distruttivi assalti.
Eppure dopo ogni colpo i diritti della vita e del desiderio risuonano con generosa caparbietà: dall'interno dell'anima straziata, consumati i sofismi della ragione, erompe l'esigenza di una conoscenza altra, foriera di chiarezza, anzi di una certezza diffìcilmente partecipabile con un discorso, che pure dica come in tutte le cose ci sia il respiro di Dio, che faccia intuire come la pena e il supplizio siano la grande scala dell'ascesa alla salvezza, se vissuti nell'aura dell'accettazione cristiana, se sublimati dall'amore, catalizzatore di gesti ablativi e lievito di rinascita.
Da questo nodo problematico scaturiscono le liriche di Gerald Parks, costituenti La valle, poema della ricerca di un percorso capace di elevare a matrice di senso la misera e tragica condizione umana e dramma della tormentata conquista di una pacificazione totale, ben memore di tutte le cortine di tenebra attraversate: "ringrazio l'ombra / che da forma alla luce. Fiat lux." Il cammino ha una guida riconosciuta in San Francesco, colui che una veritiera agiografìa medievale celebrò come il secondo Cristo. Il poverello della perfetta letizia è lo specchio in cui trovarsi, dissipate le nebbie di una ottusa terrestrità; è il garante della bontà dei passi compiuti seguendo la sua traccia.
L'ideale dialogo raggiunge un vertice di intesa in cui si plasma una identità duale e le sensibilità convergenti si sigillano e si fondono, fino al punto in cui il poeta di oggi parla con la voce dell'antico e questo rivive, testimoniando ancora le sue miti, incandescenti convinzioni, riformulando il testamento di pace ed esprimendo l'incanto verso il creato nel linguaggio e nei contesti della modernità.
Il luogo della partenza, evocato tra concretezza e trasfigurazione, è Assisi, epicentro di spiritualità e di materialità caritativa, da dove si salpa verso una continua palingenesi inferiore. Vi aleggia un'atmosfera di attesa del farsi dell'evento restauratore; ogni elemento del paesaggio si alleggerisce nel biancore di una chiaria diffusa che astrae dal presente lo scenario; arcane trasparenze o nettezza di contorni fanno di ogni presenza un simbolo affidabile e familiare: "La vita balla nel sole / sull'erba ora cresciuta sopra i morti. / E la morte tace. Un cipresso cresce, / un gufo canta, un santo riposa: / oggi è un sorriso, domani un inganno, / ma dalla tomba di un uomo infermo / i pii frati salutano i colombi."
L'altra dimensione è quella del silenzio, propizio, necessario oceano dal quale emerge la parola, spiccando il volo per fare il regesto delle trasmutazioni che ogni tassello dell'universo sperimenta sotto i barbagli dell'intuizione messa alla frusta nell'inseguimento a Dio.
La persistenza dell'exemplum francescano dirama per più flussi complementari. Innanzitutto imponendosi attraverso la figura ieratica del Santo, vivente attraverso la densità semantica degli atti che compie, significativi di una smisurata dedizione al basilare precetto evangelico dell'amore senza riserve per il prossimo e della candida semplicità operosa. Azzerate le distanze, i secoli si contraggono nell'intreccio di figurazioni alle quali concorrono, legati da ispirata vena, armonici biblici e l'arcaico sapore delle testimonianze e delle leggende duecentesche e trecentesche fiorite attorno al "principe" della fede cristiana "tutto serafico in ardore". Si aggiungono un gioco vibrante di corrispondenze tra liricità come canto del dolore e della liberazione da esso e una riflessione sull'essenza dell'umanità severamente riassunta nelle aspre e ben motivate sentenze "cogito, ergo excrucior; excrucior ergo sum", penso, dunque sono tormentato; soffro, dunque sono.
Francesco si reincarna, vivo e carismatico, nelle parole di Gerald Parks, dove in una specie di eterno ritorno stanno la sua danza "davanti ai papi e agli uccelli", l'incontro cercato con il Sultano ("Non siamo nati per bere sangue umano"), la lotta con Satana, la notte delle stigmate sul monte Verna, gli amori dolci per la povertà e per "sora nostra morte corporale", l'abbraccio al lebbroso, il sacrificio gioioso. Attraverso alcuni intensi epiteti, o definizioni divinatrici, quali "gatto randagio della speranza", "formica operaia di Dio", il poeta dimostra di aver compiutamente interiorizzato e interpretato il suo interlocutore privilegiato, il suggeritore che lo sosterrà nell'attraversamento della valle esistenziale. Il racconto ha generato l'immedesimazione, dall'immedesimazione prorompe un dettato nuovo, ardito e commosso, che non teme ormai di misurarsi con il mistero e con l'apparente insensatezza, sia della fine per mediazione di tribolazioni, che del travagliato, turbinoso cosmico avvicendarsi della materia.
Incontrastabile germina l'imperiosità di un corpo a corpo con le opacità del vivere per inseguire l'occultarsi di Dio, per poter almeno sfiorarlo in qualche sussulto rivelatore dell'animo o nella leggerezza delle creature ignare: "Dio si cela in ogni cosa banale: / nella ghianda si rivela un mistero, / come, nei petali di crisantemo, / nel ciottolo, nella zolla di argilla, / nel ramo dell'acero, nella dalia bianca, / nella luna crescente e nel sole che muore...".
Parks trova la sua misura sollecitato dal verbo francescano, scintilla che attiva un soliloquio avanzante tra mille dubbi, mentre una fontana di domande favorisce i passaggi che aiutano a districare e a sfrondare gli ostacoli che confondono la percezione del retto itinerario alla meta: " sono uva selvatica, / forse, o uva buona? Vigna, o deserto?", "Che dal limaccio possa germogliare / un fiore solare?", "Come ascolta Dio una canzone d'amore?", "E se fosse Iddio / un altro concetto mai realizzato?"
Con umiltà viene rimarcata la sostanziale personale differenza dall'archetipo inarrivabile e doverosamente si sottolinea l'incidenza di una netta dislocazione epocale: "Io non sono San Francesco. / Cammino per le strade della città / (unico alveo della nostra vita) / al tempo dell'organetto querulo / che scandisce qualche misera sofferenza." Tuttavia non si può non riconoscere come / versi che tracciano una vissuta teologia del dolore, della morte, dell'attesa pasquale, del Dio rivelato nelle piaghe del mondo, dell'anelito alla composizione di ogni disagio "Nell'ultima cena di tenebre luminose", sviluppino una variazione attuale dell'aura proveniente dal Laudes creaturarum e dalla mistica francescana, o quanto meno abbiano fondamento in quel cuore e impulso da quegli slanci.
Per Gerald Parks l'orbita stretta nella quale resta confinata l'esperienza umana è con monotonia riconducibile al patimento e alla morte, insensati l'uno e l'altro, almeno fino a quando non si riesce a intravedere come si dispongano in una 'esah', ovvero in un disegno superiore, al riconoscimento del quale solo per intervalli si può giungere, accogliendo in sé il Dio crocefisso e il "Dio che impollina la vita", il Dio inchiodato all'umanità e quello che "Sopra il nulla, lucido e puro, / dorme..., ritroso ed oscuro."
Il macerarsi di pensieri, agognante a un vedere più alto, la dialettica mediatrice tra opposti enigmi, caricano di tensione fisica e metafisica i testi costituenti la seconda parte di quella teofania e teopatia che è La valle.
Si susseguono urgenti i grumi di argomentazioni equivalenti a sonde lanciate nel buio che nella mente piomba al cospetto della disperazione o simili a riflettori accesi tra le foschie in soccorso della logica spesso ridotta all'angolo; crucci e formule, congetture e asserzioni si liberano infine in polle di luce: "E nello splendore l'anima s'annienta". E le visioni ardenti che incalzano scaricano all'interno dell'anima gli "umbriferi prefazi" della redenzione e dell'accoglimento in "ferie eterne" nella "capanna del sole".
Consegnati al baluginio delle immagini, s'intrecciano gli snodi di una ontologia che vincola strettamente l'uomo a Dio, che connette la creatura alla sua origine, alla fine e al suo fine. La contegnosa e rassicurante cosmologia tradizionale platonico-cristiana viene risucchiata nel vortice di una pervasività dell'Ente nel maestoso e dolente flusso del divenire, Ente non più impassibilmente distinto, ma implicato pietosamente in ogni forma destinata a corrompersi: "Duole il mondo e duole pure Dio". Qui, sulla desolata catasta del tritume universale, irrompe una lettura del cristianesimo (e del francescanesimo) come piena immanenza psicologica e storica di una energia salvifica che si invera e si rivela solo nell'atto di una adesione ad essa senza remore, ovvero come una sia pur imperfetta imitazione di Cristo: "O gran fratello Dio...Tu sei e non sei, al di sopra di ogni esistenza, / essere che non è, non essere che è."
In questo processo di umanizzazione di Dio, la categoria del possibile e della casualità viene applicata al Cristo nei modi di un confidente conversare, ipotizzando un'altra storia rispetto a quella svoltasi: "E se Gesù fosse morto bambino?" e di seguito si concede spazio a lievi curiosità, figlie di dimestichezza: "E quando ...era un bambino / come ragionò? Seppe di essere la via1?...Adolescente se ne andò di casa, / ribelle come tanti...".
Frequenti inserti in lingua latina, suggestivi per franchezza e concisione, talvolta concorrono a conferire al dettato di Parks la nobiltà di una sapienza atemporale, frutto di un ascolto partecipe di secoli e secoli di meditazione sulla fragilità umana e sui suoi aneliti. Tali intarsi sono un arco lanciato verso l'antica innografia: "Ergo vixi ego? Vixit enim mundus?", sono sentiero che piega verso i pensieri contemplativi filtrati dai monaci nelle spoglie celle: "non est, non erit nox perpetua; / mors est lumen splendidissimum", sono controcanto e memoria del salmista: "ego sum avis Dei.....Stetit anima / mea nuda, ignis purissimus", consentimento a Qohelet profeta dell'amaro nulla: "ego autem vermis sum non homo" e intesa con Giobbe alfiere della pazienza: "fiat in me vis tua semper invicta. / Excrucior valde."
La valle è la confessione coraggiosa di un lungo contrastare con la morte, vista e ossessivamente pensata; è l'affocata rappresentazione dell'impegnativo e conflittuale trascendimento di sé per accostare la grazia illuminante, sulle orme di Francesco d'Assisi. Sfiorate quelle altezze, il poeta, pacificato, può vergare un invito e sigiare una norma morale fatta di pochi, nitidi precetti:
Sii puro come cristallo
specchio del sole.
Porta le tue stimmate con gioia e con amore.
Sii buono come l'acqua e battezza
i morti con la speranza luminosa.Queste poesie di Gerald Parks producono un catartico turbamento, controcorrente parlando di abnegazione e di abbandoni incondizionati. Impongono di sperare, sempre, ad onta del grande male che sembra sommergerci: per questo, a chiunque, sono farmaco forte per lo spirito.
Gianfranco Scialino
Gerald PARKS (1945, stato di Wasinghton, USA) dal 1970 risiede a Trieste, dove è professore associato all'Università triestina come titolare della traduzione specializzata dall'italiano in inglese alla Scuola Superiore di Lingue Moderne. Ha pubblicato numerosi saggi accademici, monografie e traduzioni (in particolare in inglese L'isola / The Island di Biagio Marin, 1982, e in italiano Canti dell'innocenza e dell'esperienza di W.Blake, 1985, 1995). Ha curato volumi su ford Madox Ford, Joseph Conrad, William Faulkner e Lewis Caroll. Scrive poesia sia in inglese che in italiano. In Italia ha dato alle stampe sei libri di versi: Gente di confine (1977), Epodi ed epigrammi (1987), Lumen (1992), Quake (2000), Il naufragio (con Solitudini di A.Pregarc, 2003) e Orfeo (2004).
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