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STORIA E DOCUMENTAZIONE
Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d'Italia di Bruno Coceani |
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Quali ragioni si possono addurre oggi, per la ristampa di un libro vecchio di cinquantadue anni e "tranquillamente" già relegato fra le pubblicazioni che non interessano più? Libro autobiografico e "autodifensivo" di un protagonista della storia di Trieste, quando, dopo l’8 settembre 1943, un governo militare tedesco ed alcuni esponenti italiani con esso si insediarono nella città adriatica diventata centro operativo principale di quello che da allora e fino al 1945 fu l’"Adriatisches Küstenland"? E’ il caso del libro Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia di Bruno Coceani, stampato a Trieste nel 1948 per i tipi di Cappelli, di cui si fece allora un gran parlare. Nel 1945-1946, dopo la fine della guerra, ci furono a Trieste processi ed epurazioni. A Trieste cominciò, come sempre avviene in questi casi, il periodo dei ricorsi, dei distinguo, delle riabilitazioni (e spesso autoriabilitazioni); il momento insomma in cui i recenti processi trovarono un "logico", forte interesse proprio perché che si erano svolti a carico di personaggi di non poco conto nella città. Ma non passò molto tempo che attorno a vicende personali, colpe e responsabilità maturate nel periodo esso si attenuò parecchio di fronte al complicarsi della "questione di Trieste", nel clima di quella che fu chiamata la "guerra fredda, e della radicalizzazione del conflitto politico - ideologico fra Oriente ed Occidente".
E poi quali reati erano stati commessi contro i loro concittadini, in combutta con i tedeschi, da uomini che sembravano aver coscientemente sfidato l’impopolarità "sacrificandosi" per la salvezza di Trieste? La storiografia sull’argomento determinatasi nel primo dopoguerra non sembra aver consentito allora una valutazione obiettivamente apprezzabile delle vicende di Trieste sotto l’amministrazione tedesca; e l’interpretazione, ideologicamente durissima degli slavi da un lato o quella - dall’altro lato tutto sommato non molto "seguita" - degli studiosi democratici italiani (Carlo Schiffrer) o di orientamento ideologico comunque non marxista non riuscirono allora a fissare una, certamente non facile, communis opinio, dato che il "contendere" non perveniva a superare l’alternativa fascista - antifascista (con il dogma "minaccioso" di un’italianità fatta spicciativamente uguale a fascismo). Tali interpretazioni antitetiche jugoslave e "italiane fasciste" facevano isterilire ogni assunzione di punti di vista che non fossero affetti da un manicheismo politico insuperabile. Uomini come Cesare Pagnini e Bruno Coceani - anche se assolti in sede giudiziaria - restano bollati "per sempre" di collaborazionismo con il nemico.
Evidentemente però il tempo ha operato in modo diverso, per il configurarsi, in tempi più vicini a noi, cioè nei vari momenti successivi al "memorandum" d’intesa, di problematiche nuove sullo status per Trieste. Proiettato il problema su di un piano politico - diplomatico più ricco d’informazioni; risoltosi con una spartizione (non più l’ipotesi del Territorio Libero di Trieste) l’oggetto del contendere; allontanatosi il pericolo dell’aprirsi di un nuovo conflitto locale giulianoistriano - dalmata; eliminate così anche le tensioni dovute alla guerra fredda, si poteva ormai riprendere a studiare la questione di Trieste nei modi nei quali giovani storici come Raoul Pupo, Gianpaolo Valdevit o protagonisti storico - diplomatici come Diego de Castro furono in grado di vederla per gli anni in cui uscivano, dopo i due grossi volumi del de Castro, il libro Tra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954) del Pupo appunto, o La crisi di Trieste. Maggio-giugno 1945. Una revisione storiografica del Valdevit. Sarebbero poi anche venuti il Roberto Spazzali ed altri ancora. Di recente è uscito alle stampa anche il libro di Arrigo Petacco, uomo a rigore lontanissimo per origini e per interessi, ma destinato ad aumentare la letteratura sull’esodo, L ‘esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia. E’ un libro, quello del Petacco, che ha fatto un po’ di rumore nel 1999; dato che a Trieste parlare di certe cose è ancora come gettare un fiammifero acceso in un mucchio di fieno. La memoria sopita si risveglia di colpo, in determinate circostanze, ed è sempre "storia di ieri", storia di tragedie da parte di una schiera di "minori" opportunisti bisognosi di aggiustare il tiro e di rettificare giudizi imprudenti pronunciati quando essi stavano dalla parte "sbagliata".
Spettacolo non molto esaltante, in verità, ma che consente "opportunamente" il richiamo al prodotto forse più cospicuo finora, certo all’esempio più significativo del revisionismo italiano: La fine di una stagione. Memorie 1943-1945 di Roberto Vivarelli (Milano 2000). L’occasione del suo libro può comportare - si pensa - il rinfocolarsi di grosse polemiche sulla "guerra civile" italiana precisamente nel periodo dal 1943 al 1945. Quelle memorie del Vivarelli non è escluso che possano diventare il "garante" per tante situazioni già archiviate, ma ora suscettibili di ritorni in attualità.
Ma lasciamo il Vivarelli. "Studiare la Venezia Giulia vuol dire capire l’Europa", é stato scritto di recente dalla Spazzali nella sua recensione al libro di Raoul Pupo su Guerra e dopoguerra al confine orientale d ‘Italia. E siccome il volume di cui ci si occupa è il Mussolini, Hitler, Tito del Coceani, è sembrato quasi d’obbligo un paragone fra gli autori dei due libri: quello del Coceani e quello del Pupo. Entrambi, in modi metodologici assai diversi, si occupano di quella che potrebbe essere chiamata - senza esagerazioni - la fine della Venezia Giulia. Il bilancio storiografico che Pupo fa del Novecento triestino è veramente chiarificatore delle vicende della città adriatica fra gli anni della "redenzione" (dopo la prima guerra mondiale) e quelli della "catastrofe" (alla fine del secondo conflitto mondiale). Non a torto Silvio Benco aveva parlato di "contemplazione del disordine" nel maggio del 1945.
Orbene, il volume del Coceani appartiene proprio alla produzione storiografica regionale del primo quinquennio che segue al 1945; appartiene cioè alla schiera delle pubblicazioni di natura prevalentemente memorialistica ed autobiografica fiorita - come si è detto - nel periodo ma anche dopo. Qui non si parla di lavori come La corsa su Trieste di Jeoffrey Cox (Trieste 1949), o come quello su Trieste 1941-1954. La lotta politica , etnica e ideologica (Torino Mursia 1973, la cui prima edizione in inglese del 1970), o come ancora quello su Il confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia di Mario Pacor (Milano 1974), ma si parla invece del volume di Bruno Coceani che racconta la "sua" storia di Trieste (vorrei dire "personale" storia di Trieste) dentro l’Adriatisches Kùsterland. Pubblicato nel 1948, come si è detto, esso è pur sempre un libro che possiamo definire libro delle testimonianze di protagonisti. Per esso, semmai, il riferimento d’obbligo può essere uno dei tanti scritti di Carlo Schiffrer, come per esempio quello dal titolo Antifascista a Trieste. Scritti editi ed inediti. 1944-1954 a cura di Elio Apih (1995) e che al libro ha premesso uno splendido saggio introduttivo, particolarmente illuminante per quanto in questa sede si viene dicendo. Si ricorda ciò perché è importantissimo riandare alla riflessione proprio di uno studioso rispettato come lo Schiffrer sull’attività nazionale a Trieste e nella Venezia Giulia e nel periodo in questione. Non va dimenticato che lo Schiffrer, componente del C.L.N. di Trieste, scevro da ipoteche di parrocchie politiche ha sempre saputo conferire ai suoi scritti una apprezzabilissima obiettività.
Come anche il Valdevit altrove annota, ricomporre il passato recente di Trieste "collocando gli attori sul palcoscenico triestino" è stata la sfida con la quale ha saputo misurarsi la componente più vitale della storiografia triestina più giovane. Ed il maggio 1945 - come egli scrive - è sicuramente "il momento in cui intorno a ciò che si è definito come il problema di Trieste, si è anche sviluppato un intreccio internazionale ingarbugliato nel senso più pieno del termine.
Saranno gli anni della guerra fredda; gli anni nei quali escono i due poderosi volumi di Diego de Castro sulla Questione di Trieste e quanto in genere pubblicato sull’"Esodo" e la tragedia di Trieste dell’Istria e della Dalmazia. Non si tratta di una storiografia destinata ad esaurirsi così presto.
Tornando peraltro al libro del Coceani, osserviamo che esso pur senza presentare numeri di particolare interesse specifico è però un libro che in ogni caso ha trasmesso - secondo una certa prospettiva sia pure - moltissime notizie. Dal periodo badogliano fino ai giorni del "terrore" sotto Tito il libro si lascia leggere con interesse, e l’autobiografismo "apparentemente" distaccato del Coceani fa riflettere. Certo l’assenza di una coerente posizione critica si fa sentire molto, e colpisce il tono di ovvietà che il Coceani assume in vari punti del suo testo. Della situazione "tragica", poi, di Trieste dentro l’"Adratisches Küstenland" (che più chiaramente prefigurativo di un futuro inglobamento di Trieste in un Reich vittorioso non potrebbe essere) il Coceani sembra non darsi pensiero (dico sembra): c’era una realtà che non poteva non apparire inaccettabile ad un uomo navigato ed afflitto quotidianamente da incombenze di pesante responsabilità. Eppure il Coceani sembra vedere il nuovo "impianto" come qualcosa di plausibile e di possibile; fatto che naturaliter comportava una stretta collaborazione con il tedesco occupante. Gli slavi, i "resistenti" nella regione sono per lui il vero nemico. Si direbbe che ai suoi occhi contino di più i tre incontri avuti con Mussolini. Le "mire" politiche di Tito sono liquidate, nella sua prosa, come aspirazioni ambiziose; un problema riguardante le scuole slovene nella regione è per lui niente di più che un fatto tecnico, risolvibilissimo dall’amministrazione della quale egli fa parte.
Ci si aspetterebbe qualche giudizio "attendibile" là dove parla di ingerenza tedesca (termine in verità molto riduttivo!). o di servizio obbligatorio del lavoro o delle leggi razziali e dell’azione dei comitati di liberazione. Dalla sua prosa, invece, non viene fuori niente di significativo. Se c’è un capitoletto nel quale egli parla di resistenza all’ingerenza tedesca (p. 23 ss), non si capisce il perché di un altro capitoletto dal titolo "In nobis nihil restat, praeter ossa" (p.239 ss) che può essere definito normale routine, per lui.
"Chi faceva paragoni con altri tempi dimenticava - secondo il Coceani - che due anni prima l’Italia era ancora in piedi, composta nel suo stato e che il fronte di guerra era in Africa e non già al Po, e che le vie della Patria erano libere e non insidiate dal terrore dell’aviazione e che la lunga durata della guerra aveva depauperato il patrimonio zootecnico e cerealicolo del Paese e che troppa gente giudicava come se Trieste fosse avulsa dalla tragedia che sconvolgeva e stava distruggendo l’Europa", ed ignorava anche quante ansie e quali sforzi esigesse la sola razione di pane che tutti i giorni, sia pure ridotta, veniva fornita alla popolazione (p. 243).
Per il Coceani l’azione che si svolse sotto gli influssi delle forze contrastanti del germanesimo e del panslavismo tornate all’assalto contro l’italianità "secolare" della Venezia Giulia, poterono farlo in quanto l’Italia era prostrata e gli italiani "divisi". "Tragedia" degli italiani, fra l’altro, che gran parte dell’Italia ignorava. Quanto a lui, il Coceani si proponeva di esporre questa tragedia non per vanità "ma perché su questa tragedia avrebbe dovuto soffermarsi chi voleva conoscere la vendica storia della frontiera orientale". Affermazioni, queste, pensiamo alquanto gravi ed implicanti la responsabilità politica, etica e culturale di una persona stata in posizione di spicco a reggere una prefettura, nemmeno più, in verità, italiana in una Trieste diventata Operations zone (e ciò per quasi due anni), e pur disponendo lui di un osservatorio privilegiato per poter capire e giudicare avvenimenti e persone!
Sul fondamento di ciò ci possiamo spiegare ampiamente il pensiero del Coceani ed il suo convincimento che irriducibile ed effettivo nemico dell’italianità nelle terre adriatiche fossero da considerare gli slavi e non tanto i tedeschi.
Può essere accettato oggi e può essere difeso un giudizio del genere?
Si può pensare come si vuole, con maggiore o minore fondamento critico. Ma c’è un interrogativo che mi ha dato sempre da pensare, e proprio a proposito di antichi "irredenti" triestini, i quali certo non per ragioni abbiette o per servilismo si erano messi in quel periodo al servizio dei tedeschi: cercare di risparmiare orrori ancora più gravi di quelli già visti e sperimentati e comunque facilmente prevedibili, in un futuro incombente per la città occupata? Un amor loci disinteressato e preparato - in strano connubio con lo spirito di servizio - fino all’estremo sacrificio della propria persona? Persistenza, tenace oltre il credibile, di residuati vetero-irredentistici "deformanti" in persone vissute, politicamente parlando, di una visione manichea della società triestina, dimentica delle sue cosmopolitiche origini settecentesche ed ora diventata intollerante e nazionalistica ad oltranza? Difficile elaborare risposte soddisfacenti per interrogativi del genere.
Il sottoscritto a proposito del collaborazionismo di Coceani ed altri con la componente fascista e nazista, ha sempre pensato che un’eventualità del genere avrebbe dovuto trovare la sua giustificazione in una diffusa persuasione cittadina della vittoria finale germanica nella guerra che era in atto. Possibile ciò dopo l’8 settembre 1943 e la caduta del fascismo in Italia? No. Un adulto non fanatico non poteva, alla fine del 1943 (e poi nel 1944-1945) credere ancora alla possibilità di una vittoria dei nazisti. Poteva al più illudersi - come parecchi facevano - dell’eventualità della comparsa in campo di qualche arma segreta con miracolistiche capacità risolutive (le V2).
Forse bisogna cambiare ancora l’angolatura critica, abbassando gli usuali paradigmi "miracolistici" italiani. Il ceto sociale commerciale-capitalistico che il Coceani rappresentava come prefetto" di buona volontà aveva sempre creduto, in fondo, ad un suo particolare "stellone" d’Italia: "potere" fatto eguale a "denaro"; possibilità di regolare il tutto per il meglio con qualche intelligente compromesso. Trieste era da quasi cento anni una potente entità economica-finanziaria che nei grandi Enti assicurativi, nelle Compagnie di navigazione e nelle Banche aveva sempre trovato e cercato il suo sostegno. E c’era tanto spirito ebreo-greco-levantino e mitteleuropeo sperabilmente disponibile.
Trieste ce l’avrebbe fatta; i cirenei che si erano sacrificati guadagnando merito si sarebbero defilati per un po’, ed il gioco sarebbe stato fatto! Non è possibile pensare ad una alternativa di creduloni fuor del reale, completamente, assolutamente, votati al martirio e paghi di quest’eventualità. Bisognerebbe pensare ad una raccolta di arcangeli extraterrestri, oltre a tutto poco intelligenti e di capacità previsionali assolutamente nulle! Altro che veridica storia dell'Italia al suo confine orientale; eda altro che il proposito, del Coceani; di ispirarsi, nello scrivere il vero, al Dino Compagni del primo libro della sua "Cronica"!
Giulio Cervani
GIULIO
CERVANI (Trieste 1919). Ordinario di storia di Trieste e della regione giulia
nella locale Università. È presidente del Comitato di Trieste
e Gorizia dell’Istituto per la storia del risorgimento italiano. É nel
comitato direttivo della Società Deputazione di storia Patria per le
Venezie, della Deputazione di storia Patria della Venezia Giulia, della Società
dalmata di storia Patria (Venezia); è nella direzione degli « Atti
» del Centro di ricerche storiche di Rovigno (Istria), dei «Quaderni
giuliani di storia», degli «Studi goriziani». È stato
a lungo nel comitato direttivo della Società istriana di archeologia
e storia Patria.
Fra le sue pubblicazioni: Il «Voyage en Égypte»
di Pasquale Revoltella (Trieste 1962), La borghesia triestina nell’età
del Risorgimento (1969), Nazionalità e stato di diritto per
Trieste nel pensiero di Pietro Kandler (Trieste 1973), Il Litorale
austriaco dal Settecento alla «Costituzione di dicembre» del 1867
(Trieste 1979), Stato e Società a Trieste nel sec. XIX (Trieste 1983).
Per la Cassa di Risparmio di Trieste ha curato la riedizione del Cartolare
di piani e carte dove si descrive la storia di Trieste e del suo territorio
di P. Kandler (Trieste 1973). Per la LINT di Trieste ha riedito, con ampio
saggio introduttivo, il lavoro di FABIO CUSIN Il confine orientale d’Italia
nella politica europea del XIV e XV secolo (Trieste 1977). Per la Società
dalmata ha curato, con saggio introduttivo, la ripubblicazione della Storia
della Dalmazia dal 1797 al 1814 (2 voli.) di Tullio Erber (Venezia 1990).
Sono recenti i suoi lavori su Gli scritti politici di Fabio Cusin nel «Corriere
di Trieste» - I (Trieste 1991), e Momenti di storia e problemi
di storiografia giuliana (Trieste 1993).
PRESENTAZIONE DEL LIBRO TENUTASI A TRIESTE IL 22 GENNAIO 2003 NELLA SEDE DELL'ISTITUTO | |
Il pubblico presente |
Fulvio Salimbeni e Giulio Cervani |