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NARRATIVA
Alle falde di Montebello di Alfredo Seriani |
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Alfredo Seriani ci conduce dentro un vivace mondo triestino di ieri, aggrappato alle gobbe di Montebello, il cui centro di gravità evocativo è la fabbrica dei mobilieri Zerial, costruzione bizzarra e casuale, agglomerato labirintico di padiglioni, tettoie e magazzini. La narrazione ha per filo conduttore un autobiografismo scanzonato, condotto in continua dialettica con l'ambiente, con i microeventi di cui si compongono le relazioni di comunità, ma anche con i macroeventi come i fatti connessi al secondo conflitto mondiale, ai rapporti tra italiani e sloveni, all'occupazione titina della città, dal maggio al giugno del 1945. Un piglio asciutto, increspato tuttavia da frequenti ammicchi spiritosi, qualifica la prosa di Alfredo Seriani e la stessa ariosa concretezza si ripropone nei disegni che corredano il libro, nei quali l'affettuosa precisione documentaria stempera la nostalgia per stagioni e atmosfere definitivamente tramontate.
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Alfredo Seriani è nato a Trieste nel 1923 dove vive e opera. Esordì con un racconto nel "Piccolo della sera" di Trieste nel 1962. Suoi racconti vennero poi pubblicati in vari quotidiani e in alcune riviste letterarie. Altri furono trasmessi dalla RAI. Nel 1971 uscì il suo primo romanzo Gita sull'altopiano (Rebellato, Cittadella), di cui parlò al "Cercle des amis de l'Unescu", a Parigi, Ilo de Franceschi. Nel 1976 uscì il secondo romanzo intitolato Storia quasi inventata, col medesimo editore. Dal 1954 Alfredo Seriani espone sue pitture (oli, tempere, acquarelli) in mostre collettive e personali, queste ultime presso le gallerie "Tribbio", "Sala comunale d'arte", "Circolo della stampa" e "Le Caveau" di Trieste e la "Galleria 5. Vidal" di Venezia.
dalla pagina 15
IL POZZO
Da piccolo ne avevo spesso sentito parlare, ma nessuno aveva voluto dirmi dove si trovava. In origine, secondo quanto m'era stato detto, era un pozzo simile a quelli disseminati tra i prati e gli orti della periferia. Poi ci costruirono sopra la casa che, quando i nonni vennero ad abitarci al pianterreno, era a un solo piano. Il magazzino di carbone della nonna occupava un terzo dell'appartamento e il resto, un unico vano diviso in due nel senso dell'altezza, era adibito a camera e cucina. Alla camera si accedeva per mezzo di una scaletta di legno. La porta e la finestra della cucina davano su quello che sarebbe diventato il cortile della fabbrica.
Il pozzo, che in un primo tempo aveva fatto parte del magazzino di carbone, venne a trovarsi in seguito allogato nel magazzino della ferramenta e infine in un ufficio di contabilità: luoghi stipati di materiali e mobili che impedivano la vista della botola. Anzi, penso che a bella posta i familiari la tenessero celata per quello che era un singolare atteggiamento del loro animo: sottacere tutto ciò cui davano molta importanza. Forse era rimasto loro come un gusto tribale, lo stesso per cui i loro antenati solevano onorare dei feticci, mentre adesso culto e rispetto era riservato a quel pozzo. Altrimenti avrei dovuto saperne di più. Le mie orecchie avevano captato solo delle frasi mozze, veri e propri enunciati di dottrine esoteriche. Mi figuravo che ai loro occhi il pozzo dovesse rappresentare quello che per i nostri progenitori erano stati una montagna, un fiume, un albero, un ... pozzo per l'appunto, in cui gettare le vittime, immolandole a qualche oscura deità. Avendo poi quei riti assunto attraverso il tempo un carattere più domestico, anziché vittime ci tenevano adesso in fresco i beveraggi e la frutta durante le feste più importanti che, pur non assurgendo ai fasti di una volta, erano tuttavia gagliarde.
Un giorno però, mentre i familiari stavano calando nel pozzo una cassetta di bottiglie di birra e un carico di angurie, la corda s'era spezzata. Ciò s'intende ero venuto a saperlo per bocca di estranei, dato che loro certo si vergognavano d'esser stati in quel caso così maldestri. Sapere che tutto quel ben di Dio si trovava sott'acqua da tanti anni mi toglieva ormai il gusto di poterne disporre. Ma sapevo che vi erano state gettate anche armi, munizioni, cannocchiali, divise e perfino biciclette: oggetti di cui s'erano momentaneamente disfatti, sicuri, peraltro, di poterli riutilizzare in seguito. Le armi in special modo mi incuriosivano. Ce ne dovevano essere parecchie e di tutti i tipi: un vero arsenale. I primi ad iniziare, per dir così, la raccolta, furono il nonno, lo zio e mio padre quando tornarono dal fronte. Volendo sbarazzarsene, per prima cosa pensarono al pozzo: gettarvele non era come buttarle dalla finestra o distruggerle; vi sarebbero giaciute momentaneamente inoffensive, pronte però ad essere riusate per una più giusta causa. Pareva che agendo a quel modo i familiari avessero rinunciato ad una parte di loro che non era certo la più buona, ma di cui neppure si vergognavano del tutto. Fucili, pistole, baionette, divise tedesche, finirono nella voragine. Poi, fu la volta della armi italiane: accadde una sera dopo ch'era stato dichiarato l'armistizio. Sul piazzale "Alla locanda" erano confluiti i resti di quella che era stata la divisione "Julia". Quei soldati parevano stupiti di trovarsi nella nostra contrada, quasi vi fossero stati catapultati direttamente dal campo di battaglia. Veniva fatto di credere che non fossero a conoscenza dell'armistizio. Forse erano venuti a saperlo strada facendo e ne dubitavano ancora. In ogni modo, giunti fin lì, credevano d'essere ormai al riparo da ogni spiacevole sorpresa. Ma improvvisamente i teutoni, usciti dalle vicine caserme, li avevano circondati, intimando loro di gettare le armi. Allora in quei soldati stanchi, snervati, le cui armi dovevano pesare come piombo nelle loro mani, avevano avuto la reazione più naturale che ci si potesse aspettare da chi tornato a casa dopo aver passato molte peripezie, invece d'esservi bene accolto, si sente osservato attraverso le canne dei fucili: si misero sulla difensiva. Fu un momento di panico nel rione. La gente che curiosava nella piazza se ne allontanò in fretta. Mi trovavo anch'io in strada in quei momenti, diretto verso la piazza: me ne appariva una fetta in cui era un tumulto di divise e fucili. Feci dietro front e, tornato indietro, trovai sulla porta di casa alcune persone che discutevano animatamente. Altre sopraggiungevano di corsa con i volti allarmati.
- Stanno per sparare - gridò qualcuno.
Erano tutti eccitati e l'eccitazione illuminava i loro volti e le loro voci avevano dei toni squillanti, festosi. Dalla piazza vidi giungere Ranieri che poi si fermò anch'egli davanti alla nostra casa. Le sue labbra avevano una piega leggermente beffarda.
- Non succederà proprio niente, - disse, rivolto a ch aveva preannunciato la sparatoria.
- Sì, sì ... hanno già i fucili puntati - altri dissero.
Ma Ranieri faceva di no con la testa. La sua freddezza (era solo apparente ma io non lo sapevo) stonava maledettamente con lo stato generale di eccitazione cui in circostanze consimili lo avevo visto altre volte soggiacere. Tornava a far capolino (così simile a quello degli altri familiari!) uno spirito di contraddizione volto a smorzare estemporanei entusiasmi.
- Il colonnello tedesco ha detto: "Non fate ridere i sassi". L'ho sentito con le mie orecchie. È gente che non scherza quella. E poi, cosa volete che facciano dei soldati male armati e per di più senza comando? - concluse Ranieri.
Dal mio canto, pur temendolo, speravo che succedesse qualcosa. Supponevo che anche gli altri condividessero il mio sentimento.
Invece non accadde niente. Gli alpini, forse rendendosi conto che era assurdo resistere, consegnarono la armi ai teutoni che li scortarono nelle vicine caserme "Beleno" e "Duca D'Aosta". Molti di essi però, profittando del caos, scomparvero nelle vie limitrofe, taluni ignorando perfino di avere ancora tra le mani un fucile. La maggior parte, occorre dirlo, imboccata via Settefontane penetrò in casa nostra che si rivelò un provvidenziale rifugio come lo era già stato per i guerriglieri slavi e come tra non molto lo sarebbe stato per i teutoni. Anzi, una cosa avevo notato: scappavano tutti allo stesso modo. Un luogo dicevo, dove infinite erano le possibilità di mimetizzarsi. Buon per loro che i familiari un po' emozionati non ci avessero messo più cura nel nasconderli, altrimenti nessuno li avrebbe mai più reperiti. Certo che quei poveretti, una volta tornati a casa, avrebbero raccontato ai propri cari d'essere capitati in uno strano posto, sforzandosi di descriverlo nei particolari. Ma nessuno li avrebbe presi sul serio. Una cosa era certa: non appena messo piede lì dentro, tutti erano pronti a gettare le armi, sicuri di non averne più bisogno.
E fu così che in più occasioni i miei familiari riuscirono ad accaparrarsi un quantitativo di armi, divise e vettovaglie tale che in altra circostanza non avrebbero punto sfigurato come preda bellica. Sospettavo a volte che provassero un gusto matto a farne incetta. Forse era gente che propendeva per il disarmo mondiale. O fors'anche lo facevano per propria tranquillità, pensando che quante più armi c'erano in casa, meno ce ne dovevano essere in giro: un istinto di sopravvivenza. Sta di fatto che loro sembravano essere sempre al corrente di tutto ciò che sarebbe accaduto, come se casa nostra fosse un passaggio obbligatorio per la storia. Quanto ai fuggiaschi, fossero soldati o truppe irregolari, ebbero a onor del vero lo stesso trattamento, tant'è vero che non pochi di loro restarono a lavorare in fabbrica. Alla fine della guerra quegli sbandati, che pure in origine parlavano favelle diverse, erano ancora lì e si capivano ormai a meraviglia.
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