PUBBLICAZIONI NARRATIVA

A cena da Oliva

di Alfredo Seriani

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A CENA DA OLIVALa parola dei poeti conserva le sfumature della vita di cui i luoghi si sono animati; ha la capacità di compendiare e di trasmettere la storia di quei medesimi luoghi, non per generalizzazioni, ma attraverso caldi e minuti dettagli, ispirati riferimenti, che sottraggono all'oblio l'accaduto individuale e collettivo per riproporlo in una avvincente e suggestiva attualità. Ne risultano colleganze suscitatrici di emozioni perduranti di modo che nominare una strada o una piazza è evocare un testo, leggere una pagina è innervarsi in uno spazio che finalmente ci mette a parte dei suoi più reconditi segreti.

Trieste possiede una ricchissima topografia letteraria; gli scenari vasti o minimi che la caratterizzano dal mare al monte, dai borghi ai rioni, fino ai singoli palazzi, si sono illuminati frequentemente per virtù di poesia e noi li vediamo ormai non più disgiunti da quegli accenti.

Via del Lazzaretto Vecchio è Saba, con Via del Monte e Via Rossetti; i Silos gremiti di profughi istriani rimandano a Verde acqua di Marisa Madieri; sveviani sono il passeggio di Sant'Andrea, Via di Romagna, Via di Cavana, la Sacchetta; Claudio Magris è il Caffè San Marco; a Ponterosso convergono in tanti con Sergio Penco, con Daria Camillucci; in compagnia di Fulvio Tomizza l'itinerario si fa reticolo fitto di visitazioni e di passione; il colle di San Giusto, rocca negli evi di forza e di preghiera, si staglia nelle liriche di Pietro Zovatto.

L'angolo tra Via Settefontane e Montebello ha trovato il suo poeta in Alfredo Seriani che ne ha delineato la stratificazione umana, ripristinandone le atmosfere tramontate attraverso la ricostruzione di una feriale saga familiare sviluppatasi all'interno di un opificio condominio, antro risuonante di stridori, di macchine, di febbrile e caotica attività, sul quale e attorno al quale si erano disposte le abitazioni di un composito gruppo parentale, innestatosi ai margini della città, scendendo dall'altopiano contadino e sloveno.

Travestito da dimessa e affabile cronaca, Storia quasi inventata, romanzo in cui lo scrittore è anche personaggio che racconta e si racconta con atteggiamento autobiografico, possiede una felice e sapiente originalità di impasto e di tessitura.

Avvince e gratifica il lettore attraverso il gioco libero e creativo di continui e mobilissimi sovrascorrimenti temporali tra presente e passato, disposti in un arguto contrappunto di immagini, di episodi, di gesti, incisi con nitore, con realistica precisione, con un gusto umoristico dei dettagli che compie il sortilegio di riafferrare gli eventi rapiti dagli anni e di interpretarli nelle loro valenze, addolcendoli con il ricorso alle note di un intimismo meditativo consapevole di ogni ambiguità e fascinazione del ricordare e della sorgiva casualità dell'esistenza.

Tutto si incardina in un breve viaggio, dall'abitazione recente alla vecchia e leggendaria casa fabbrica di Via Settefontane, dove ancora abitano Oliva e Stefano, ultima scheggia del composito e numeroso clan degli Zerial mobilieri.

La famiglia superstite, e ultima resistente nella vetusta costruzione, un po' caserma, un po' convento, un po' irrisolto museo di archeologia industriale dalle innumerevoli stanze, dai lunghi corridoi che si perdono in prospettive incredibili, dai cento anditi e cantoni generosi di eccentriche sorprese, è assediata dai piani regolatori e urbanistici e dalle mutate condizioni economiche che hanno indotto nei laboratori un silenzio carico di nostalgie, protetto dalle sempre più abbondanti e polverose cortine delle tele di ragno.

Si intuisce che presto il dedaleo palazzo, reso muto del tutto, si dichiarerà sconfitto, si abbandonerà alla lima di un degrado radicale. Solo qualche dettaglio architettonico più resistente degli altri, orgogliosamente testardo, continuerà a testimoniare una lunga storia prima di cedere, di malavoglia, con un pizzico di rancore impotente contro il mondo che corre per strade sue, lasciando montagne di scarti.

La visita del personaggio narratore, alias Alfredo Seriani che nel suo riferire non intende nascondere l'impianto memoriale diretto, anzi fa di esso lievito alla invenzione narrativa, ha quindi il significato di un ripercorrimento di stagioni e luoghi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza sue e dei cugini e degli amici, di un ritorno pellegrinaggio alla casa madre dei nonni, dei genitori, degli altri consanguinei, a quell'autentico porto di mare, ventre della balena, castello, roccaforte, alveare di opere e di relazioni umane, arca di Noè infine per il gran numero di animali ospitati, ma anche per la generosa accoglienza a mendicanti, vagabondi, salariati, amici più o meno occasionali, che era l'edificio di Via Settefontane, concresciuto in labirintico agglomerato con bizzarria architettonica, per giustapposizione di corpi, per ardite soluzioni pratiche e abitative, come quella del terrazzo, osservatorio e pollaio dal pavimento a quadroni bianchi e rossi, o quella del montacarichi che scorreva esattamente davanti atta finestra del bagno.

Il cronista e poeta, agli esordi del racconto, quando ancora mancano i colori al disegno e neppure se ne può prefigurare la strutturazione, lascia un impercettibile indizio detta sua natura sognatrice, meditativa, del suo debole a farsi prendere dal linguaggio muto dette cose, dalle fantasie che ricamano sull'esistente e lo vivificano. Lo fa attraverso una annotazione in apparenza banale: «dimenticavo sovente di consultare l'orologio». Queste pause o sospensioni sono varchi aperti verso il tempo detta mente, senza misura, espanso, tanto vasto da sembrare immobile, ritornante su se stesso e sempre foriero di nuove intuizioni, di guizzi rivelatori.

Così il libro si modula su due piani, il primo fenomenico diretto, un episodio detta quotidianità in atto, ovvero un invito a cena, con il trasferimento, la durata conviviale, i saluti, la separazione, l'altro vasto, inafferrabile nei suoi orizzonti perché continuamente ridelineati dall'autonomia dei ricordi i quali scattano per lo stimolo di una sensazione, per sovrascorrimenti che portano una percezione o immagine presente a sfumare in una scena antica, dalla quale per concatenazioni associative, con sapida fermezza di contorni riemerge un'epoca, si fanno avanti volti, caratteri, piccole faccende personali, prefigurazione di destini annunciati in forma misteriosamente oracolare da microeventi che solo a grande distanza palesano la loro funzione determinante o anticipatrice.

Un esempio è Glauco, imbambolato e rapito in fantasticherie artistiche che lo isolano dagli altri, vittima costante di incredibili incidenti, parafulmine abitudinario di disguidi e inconvenienti vari, la cui natura sembra precocemente rivelarsi contestualmente al sonoro pugno in faccia ricevuto per errore dalla veemenza di Oliva che intendeva confrontarsi con il punchingball in disfida con i maschi. Oliva stessa, impacciata nel parlare per eccesso di pause, apparentemente inetta e svagata, è la conseguente evoluzione di una bambina scontrosa che si appartava per mangiare in solitudine, cresciuta nella bambagia e riluttante testimone delle efferatezze domestiche, compiute dalla nonna per necessità alimentari e consistenti nelle sbrigative esecuzioni di polli e tacchini.

«Voglio entrare senza che ci sentano» dice il narratore protagonista e aggiunge: «sentivo che stavo vivendo un momento singolare». La chiave finalmente rintracciata nella congerie di cianfrusaglie stipate nelle tasche, se apre materialmente la porta della dimora avita, fa contemporaneamente scattare in lui un altro meccanismo più complesso e invitante, quello di un vivo dialogo con le ombre, con il se stesso di una volta, con gli oggetti abbandonati che per un momento tornano alle funzioni cui assolsero assieme a chi li usò.

Schizzo di Alfredo Seriani dal libro A CENA DA OLIVA - pag.48L'animo si è preparato al lungo monologo interiore della memoria durante il tragitto per Via Settefontane, compiacendosi di gustose ipotesi sull'origine del toponimo, non fonti d'acqua, ma mescite di vino, ricomponendo graffiti duri, come quelli che tratteggiano la bottega del macellaio suicida, slargando macchie dinamiche di colore, che sintetizzano le spericolate gare dei garzoni in bicicletta, e disponendo acquerelli rasserenati che riassumono la socialità festosa e ciarliera della strada ancora ubicata in una zona di periferia, a ridosso dell'agglomerato urbano.

Seriani ricorre al filtro del distanziamento umoristico nel descrivere e nel rammemorare; lo perfeziona, lo aggiusta, lo modula sui personaggi e sulle loro azioni mano a mano che si addentra nella narrazione. Questo procedimento gli evita di scivolare nell'ovvia piattezza del sentimentalismo nostalgico, anzi in un vero crescendo di efficacia espressiva, attraverso un sapido ed essenziale realismo di tratti, lo fa pervenire a un livello di rappresentazione in cui il tipico, fortemente sbozzato e colto in lucidi dettagli, si apre al simbolo, all'allusione indirizzata agli arcani dell'animo, e fissa l'irrazionalità della esistenza, mitigandola con accenti di saggezza, di affettuosa comprensione per ogni essere umano, per ogni animale, comprensione tanto più piena quanto più si evidenziano le increspature del comico o del paradosso.

I rimbalzi tra presente e passato generano per affinità o antitesi un intreccio e un susseguirsi di quadri compiuti nati per accidentalità associativa, ma immediatamente ricollocati in un andirivieni perfettamente concatenato.

La varietà è stupefacente. L'abbaiare del cane Athos che saluta gli ospiti dal sommo della scala è l'inizio di una intermittente linea evocativa dedicata agli animali, autentici comprimari, anch'essi dotati di personalità irripetibile, se evoluti, come cani e gatti, e comunque forniti di caratteri marcati, se meno autonomi, come colombi e topi ratti. Il bestiario è ricco e significativo: il primo Athos, bassotto talmente lungo da meritare la definizione di cane serpe, Moro, cane da fiera e saltimbanco perdutamente innamorato di Diesel, cagna vagabonda e attaccaticcia, raccoglitrice e occultatrice di carogne e schifezze, la lasciva gatta Greta, il porcospino Pinco sopravvissuto ai colpi e agli scuotimenti 'furiosi del nonno nel sacco delle immondizie, in quanto scambiato per un ratto; le capre indiane intruppate nel corridoio; i tronfi tacchini impastoiati e legati in terrazzo; il pipistrello suicida e Fino Fiorino il cane vecchio e sfiancato dal quale i bambini si divertivano a farsi inseguire e cercare, perché facilmente potevano farsi beffe di lui.

Nel romanzo si contrappongono Stefano e il narratore. Il primo, esuberante, teatrale, energico e fin violento, è massimamente calato e immedesimato nel presente: emblematica risulta la sua rumorosa esibizione come addetto alla cottura delle bistecche; l'altro d'ogni attimo che scorre fa un trampolino per sporgersi sul passato, per rivedere con gli occhi dell'affetto e della poesia quanto è ormai dileguato nell'inghiottitoio del tempo. Uno dei punti di maggiore divaricazione del loro sentire si coglie nel comportamento che essi assumono di fronte alla sorte di uno scranno, già malandato, preso d'assalto dalla figliolanza e da Athos per l'ultima demolizione. Stefano è certo che gli oggetti logorati perdono ogni loro valore, il suo antagonista al contrario è convinto che l'età e l'usura ne aumentano il pregio; sono due logiche inconciliabili.

Lo scranno, quello su cui sedevano il nonno e la nonna e sotto il quale stazionavano il cane e il gatto, soccombe sotto le furiose martellate di Stefano e finisce precipitato nella fossa delle reliquie, l'angolo del cortile deputato da sempre a raccogliere detriti e robe inservibili.

Eppure il nemico del vecchiume, lo spavaldo guascone, sotto la scorza del suo pragmatismo sente di essere legato alla casa della quale è stato fatto dalla sorte estremo custode e manifesta tale sentimento esplodendo in un terremoto di protesta contro il decretato trasloco che incombe indifferibile.

Le schermaglie tra i due uomini si spostano su di un terreno che prefigura un avvicinamento di spirito nei capitoli finali, fautrice una uscita, quasi complice fuga, sul leggendario terrazzo al lume della luna. Ma in Stefano è ostinata una certa refrattarietà all'ammorbidimento, anche se senza dubbio un brivido, un breve stupore lo attraversano quando si sente chiedere se ritiene che dei morti resti qualcosa, una sia pur leggera traccia nei posti dove hanno vissuto, anche se in coerenza con il suo fare disinvolto elude sbrigativamente la domanda: «Non mi intendo di queste cose e ci penso il meno possibile».

Certamente le presenze del nonno, della nonna e della zia aleggiano nelle stanze, sono palpabili accanto agli armadi, alle credenze, alla tavola, ai letti; il nonno, gran mangiatore, nei suoi anni avanzati comunicava quasi esclusivamente con gli animali domestici tramite suoni indecifrabili interposti a lunghe pause meditative; la nonna aveva nel mestolo il suo scettro con il quale stabiliva la legge e dettava l'ordine; la zia era l'animatrice della casa, l'equilibratrice dei rapporti, «una creatura provata dalla vita», la cui scomparsa destabilizza la piccola comunità, segnando l'inizio di un declino fatale.

Il suo funerale è descritto in poche righe che posseggono una solennità commovente e trasmettono un senso vasto di partecipazione dolorosa: «II grosso assembramento si era allungato in interminabile fila. Quando i primi, svoltato a destra affrontavano la salita di Via Vergerio, altra gente si assiepava ancora davanti alla nostra casa. In Via Settefontane erano ancora tutti affacciati alle finestre. Stavano fermi come statue collocate dentro ad apposite nicchie. Molti, come per un tardivo ripensamento, uscivano dai portoni, andando a ingrossare il corteo».

Lo spessore dei personaggi cresce e sempre meglio si delinea come risultato di uno scavo negli strati del tempo in forza del quale affiorano particolari al momento forse scivolati via perché valutati come insignificanti, mentre ora, riemersi al chiaro e alla comprensione acuta dell'intuizione poetica, suggeriscono invece un senso per ogni vita e ne danno compimento.

Le figure tratteggiate nel romanzo hanno costantemente affollato l'interiorità del loro cronista, hanno avuto evoluzione con lui, lo hanno accompagnato fino al momento di oggettivarsi e di ritrovarsi ancora assieme contemporaneamente in una sera che travalica ogni misura di orologio nello stabile di Via Settefontane per riproporre il vero e serio teatro della loro esistenza; non solo i trapassati, ma anche i viventi, dei quali a ripopolare i locali, prima dello sfratto irrimediabile di tutti i fantasmi, sono i tanti che ciascuno è stato vivendo.

Schizzo di Alfredo Seriani dal libro A CENA DA OLIVA - pag.146Il processo narrativo attivato da Seriani ha queste robuste fondamenta di elaborazione e di coinvolgimento morale, ma si sviluppa soprattutto attraverso una incalzante sequenza di episodi concreti, precisi, sinteticamente compiuti ed esaurienti al punto che una loro ipotetica diluizione o dilatazione li snaturerebbe; in essi, come accennato, un umorismo franco, alla sua superficie fin impietoso, incide le situazioni, mentre un'autoironia elegantemente pervasiva accompagna quanto si riferisce al narratore e rende effervescenti i suoi commenti e le riflessioni.

Ecco allora il granguignolesco smembramento del cavallo a opera di improvvisati macellai giù nel cortile; la processione degli abitudinari consultatori dell'orologio della fabbrica che si affacciano alla porta in una successione di mimiche divertenti e grottesche; ecco l'assalto dei ratti agli impettiti e imbecilli tacchini; la battaglia dei cocomeri, crescendo di follia e di confusione in cui anche la quieta e serafica Amanda ritiene di lanciare il suo proiettile, scegliendo a bersaglio il più facinoroso e sbruffone degli operai contendenti; ecco il grammofono, pericoloso come una infida balestra nelle operazioni di carico della molla, e le danze, tra le quali strampalata quella cui è costretto l'inesperto Tarcisio, appartenente alla curiosa specie dei primi della classe; ecco il catalogo e la fenomenologia delle bottiglie di vino, distribuite ovunque nei tempi di prosperità, in ritirata nei periodi recessivi, traditrici quando il contenuto ne smentiva l'etichetta o la foggia, causando qualche spiacevole inconveniente. Per completare l'indicazione della mobile e briosa varietà del racconto almeno un cenno meritano due altri passaggi: la cronistoria di una incoercibile passione sbocciata per il canto e l'interpretazione degli alberi di Natale e del presepe. Vasco e il protagonista narratore sperimentano una vera e propria infatuazione artistica, nella cui relazione si colgono spicciole, ma interessantissime osservazioni che potrebbero avere attinenza con una ricerca sulla genesi del fare artistico: «Ogni specifica attività nasce e si delinea entro una parte anatomica, che in conseguenza del protratto esercizio rimane addirittura alterata nell'aspetto... Qualcosa del genere avveniva per il canto. Lo sentivamo nascere in gola, nella nostra ugola, dapprima come un lieve stimolo, quindi come un impulso da soddisfare senza indugio. Ci pareva di poterlo toccare con mano; perfino il sentimento si faceva palpabile».

Il nobile progetto d'arte, alimentato da una dedizione senza limiti, fin maniacale, sostenuto anche dal ricorso a pratiche medicamentose ciarlatanesche, si arenò di colpo: la passione era evaporata d'incanto, «come avviene per le cose che hanno avuto grande importanza».

La specialità del Natale era indicata dall'abete addobbato, splendente di candele e bengala; grande in origine, riassumeva gli intenti dell'intera patriarcale comunità.

Dopo che questa si divise, articolandosi in tre nuclei, negli ambienti occupati da ciascuno di essi comparivano all'appuntamento con le feste distintamente tre alberi riflettenti in modo evidente l'indole degli allestitori. Qui la finezza dell'osservazione, potenziata nel ricordo, assume i contorni di una investigazione psicologica scorciata, di una decifrazione di tratti profondi dell'animo attraverso gli indizi lasciati dalle mani nell'azione decorativa.

Così l'albero di Oliva, meditabonda, trasognata, incline alla solitudine, «appariva squallido come avesse subito un trattamento inadatto alla sua importanza»; quello di Elsa, vitale, prorompente, contestatrice, risultava presuntuoso e sovrabbondante di orpelli: «veniva da pensare che il peso in soprappiù di un solo palloncino di vetro soffiato sarebbe stato sufficiente a schiantarlo». Nel curare il suo il narratore seguiva un procedimento selettivo che teneva conto, nella sistemazione degli ornamenti, del loro significato affettivo, della loro vetustà che li rendeva più cari, con il proposito di creare qualcosa di organicamente e spiritualmente vivo, indice di una precoce inclinazione al bello e alla riconoscente pietà.

La cena, dopo molteplici vicissitudini e imprevisti, è terminata; languono e stentano a riaccendersi i bisticci verbali, le confidenziali provocazioni. Siamo al momento del brindisi, detto bicchiere della staffa, quando la corrente elettrica si interrompe, facendo piombare nel buio gli spazi, i contorni delle cose assieme alle persone.

La ricerca del guasto non sortisce buon esito, chissà dove il decrepito impianto ha fatto cilecca, ma la perlustrazione che avviene muovendo cortine di tenebre favorisce l'affollarsi di altre memorie che hanno un loro vago modo di materializzarsi attraverso i fruscii, gli scricchiolii, l'oscillare incerto e sfuggente dette ombre che il debole lume d'emergenza proietta sulle pareti. E' la lampada di casa, appartenuta alla nonna, usata dalla zia; ora attorno a essa come farfalle notturne si assiepano inesistenti tracce di vita che non vogliono e non possono venir cancellate.

Dal terrazzo si vede che i caseggiati all'intorno brillano di luce, indifferenti alla chiazza nera che pare aver annullato solo il blocco dell'opificio dismesso con le annesse dimore. Si respira l'ora delle separazioni, la sensazione è di un sipario pesante definitivamente calato. A stemperare la commozione in agguato sovvengono alcuni ricordi più stravaganti e curiosi, quello degli addii ai chiamati alle armi, conditi di lacrime e di turbamenti rivelatisi uno spreco, visto che i due partenti, prima che passasse un'ora, erano di ritorno, respinti dalla caserma già piena, e quello di una fragorosa rissa che aveva risucchiato l'intera prosapia, fomentata da una delle tante marachelle o cattiverie di Elsa bambina, e quindi senza plausibili ragioni ingigantitasi per l'innesco di perfidi meccanismi istintuali e per incontrollabili dialettiche di latenti dissidi tra gli individui e tra le fazioni.

La casa di Via Settefontane, mentre si incrociano le reiterate voci di congedo, rimane segregata nell'oscurità; sembra anzi di vederla rimpicciolire, retrocedere, distanziarsi poco a poco, ma intanto i suoi segreti sono stati rivelati, l'antico fervore è riemerso nel rincorrersi di tante vicende umane e di vari casi di umanizzati animali: tutto perdura salvato, custodito e protetto per sempre in questo romanzo di Alfredo Seriani commisto di trasfigurata cronaca e di riverberi di poesia, la prima limpida e accattivante per nettezza descrittiva, la seconda generata dalle partecipi escursioni del cuore.

Da un presente di perplessità e di incognite l'autore si è inoltrato verso i campi della memoria, trasognato e minuzioso nel ridestare l'aura di un microcosmo triestino in cui vivere aveva forti sapori, aspre e inconfondibili forme, e i giorni si rinnovavano avventurosi in un flusso imprevedibile di fatti e invenzioni.

Gianfranco Scialino

dal PICCOLO di Trieste del 27 settembre 2005

Alfredo SerianiAlfredo Seriani è nato a Trieste nel 1923 dove viveva e operava fino al 2005. Esord́ con un racconto nel "Piccolo della sera" di Trieste nel 1962. Suoi racconti vennero poi pubblicati in vari quotidiani e in alcune riviste letterarie. Altri furono trasmessi dalla RAI. Nel 1971 usć il suo primo romanzo Gita sull'altopiano (Rebellato, Cittadella), di cui parḷ al "Cercle des amis de l'Unescu", a Parigi, Ilo de Franceschi. Nel 1976 usć il secondo romanzo intitolato Storia quasi inventata, col medesimo editore. Dal 1954 Alfredo Seriani esponeva sue pitture (oli, tempere, acquarelli) in mostre collettive e personali, queste ultime presso le gallerie "Tribbio", "Sala comunale d'arte", "Circolo della stampa" e "Le Caveau" di Trieste e la "Galleria 5. Vidal" di Venezia.

 

 

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