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PUBBLICAZIONI SAGGISTICA

NEL MONDO DI SABA
«Le scorciatoie di un poeta saggio»

MISCELLANEA DI STUDI
a cura di Fulvio Senardi

con i contributi di Anitha F.Angermaier, Stefano Carrai, Paolo Fabbraro,
Paola Farndini, Edoardo Greblo, Alfredo Luzi, Gino Ruozzi, Fulvio Senardi

pubblicato nel 2018
ISBN 9-788890-852664
€ 15 - ordinabile qui

Fulvio Senardi

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Copertina NEL MONDO DI SABANel mondo di Umberto Saba:
«le scorciatoie di un poeta saggio»

Presentazione


     Il libro che presentiamo trova la sua ragion d’essere e il suo primo nucleo di riflessione e di scrittura nel convegno sulle Scorciatoie di Umberto Saba organizzato dall’Istituto Giuliano di toria Cultura e Documentazione di Trieste e Gorizia, che a tal fine ha potuto avvalersi di un finanziamento della Fondazione Benefica Kathleen Foreman Casali di Trieste e di un contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia nell’ambito del progetto «Cercare fortuna, trovare futuro. Uomini e donne, nazioni, comunità, culture, religioni nell’Alto Adriatico» per il quale l’Istituto Giuliano è stato “junior partner” della Deputazione di Storia Patria di Trieste.

     Trovando cordiale ospitalità presso il Circolo della Stampa di Trieste, il convegno si è svolto il 21 aprile 2017, sotto la presidenza di Pierluigi Sabatti e con il coordinamento di Giovanni Capecchi, e ha visto la partecipazione di intellettuali di chiara fama quanto agli studi sabiani. Alcuni dei saggi qui raccolti derivano per via diretta dalle relazioni al Convegno, altre sono elaborazioni originali di studiosi che hanno voluto aderire al progetto del volume. Per la forma espositiva la scelta si è orientata verso modelli accademici, con l’eccezione di Paolo Febbraro che ha deciso di sondare il Saba “aforista” sfidandolo sul suo stesso terreno, con una scelta che il poeta triestino avrebbe senza dubbio apprezzato. In sede di Convegno il confronto si è indirizzato sulle Scorciatoie, escludendo i Raccontini, che le accompagnano nel libro pubblicato da Mondadori nel 1946 e il cui incedere narrativo colloca in più tradizionali contesti di genere (meno sofisticato il trattamento stilistico, meno ricco il tessuto di rimandi culturali, meno marcato il progetto ideologico-espressivo, diversi i termini del patto narrativo), per quanto caratterizzato da quello stesso accento cristallino che, secondo Lavagetto, contraddistingue la prosa di Saba.

     Nonostante il «taglio cesareo» suggerito da Giacomo Debenedetti e posto in opera da Saba nel volume mondadoriano, non esiste ovviamente confine netto tra le due forme, sibbene una serie di passaggi intermedi. Ma se molte Scorciatoie tendono al narrare disteso e strizzano d’occhio alla sirena impressionistica e memoriale dei Raccontini, resta il fatto che più nelle prime che nei secondi la natura testuale e la visitazione consapevole di non consueti universi culturali crea un ambiente straordinario per echi e suggestioni. Unico, si può dire, nel panorama della letteratura italiana del Novecento. Cosa di cui si accorse chi ne scrisse rasente ai mesi di pubblicazione (ma non Moravia, e qui l’insoddisfatto per natura ebbe molto a dolersi, come si legge nella lettera a Linuccia del 29 luglio 1946), aprendo la scia di un piccolo successo d’élite presto richiusasi, imprigionando Saba nel ruolo di poeta del campanile, un cantore spensierato di pittoreschi angoli di città e di trepide scenette di vita per il tormento di liceali costretti all’esercizio mnemonico.

     Guido Piovene, nel novembre del 1946, metteva bene in luce sul «Corriere della Sera» la novità dell’opera, spiegando che «le massime di Saba nascono dalla psicoanalisi, o dalla decantazione di essa in alcuni pensieri nitidi, lievi e brillanti. La psicoanalisi di Saba è però quella vera, non come l’intendono i più non conoscendola affatto, quasi [...] un amore di malattia: bensì una scienza curativa dell’anima per forte amore di salute, anzi il maggiore sforzo del pensiero moderno alla saggezza razionale». Da parte sua invece Giansiro Ferrata sul «Politecnico» (Le scorciatoie di un poeta saggio), riconoscendo in Scorciatoie e Raccontini uno tra «i più begli avvenimenti della nostra letteratura da diversi anni in qua», lo descriveva, all’indomani dell’uscita, come un «libro di poesia e libro d’amore e di esperienza dell’umano come si offre a una sensibilità ancora fresca, legata vicacemente a un metodo di pensiero», la «psicanalisi». Altro l’approccio di Vittorio Sereni su «La Via», nella primavera del 1946, persuaso che «Scorciatoie [...] convincono, e spesso incantano, là dove la realtà viene attaccata in presa diretta, senza intenti dimostrativi.

Locandina di ĞLe Scorciatoie di Umbreto Sabağ

     In particolare, e per esempio, dove il presupposto psicanalitico è completamente fuso, diventato sangue e sensibilità; dove non appesantisce e non turba la limpidezza e l’innocenza dello sguardo e con essa la luce dell’oggetto scoperto (o inventato?), la sorpresa della rivelazione. È, in questi casi, la forza della poesia che riesce a incidere sulle cose in modo forse più duraturo – perché più palese – degli altri mezzi di conoscenza». Insomma, bene le Scorciatoie quando non soffocano la scintilla della poesia, ma se ne lasciano interamente pervadere; proprio al contrario di Gianfranco Contini che, al confronto del «disigualissimo Canzoniere» (che Einaudi aveva appena pubblicato), è spinto a riflettere, confessa, «se l’esplosione di gioia e di ragioni delle recenti Scorciatoie e raccontini non contengano un Saba tanto più puro; se l’intelligenza, ancora insospettabile al lettore del Canzoniere non prevalga infine sulla mera intuizione e se Saba non rientri nel grande alveo tradizionale del moralismo triestino» (L’insegnamento di Trieste, «Fiera letteraria», n. 15, luglio 1946). Solo qualche pepita, colta qua e là a caso, e delle cui ragioni e intuizioni sarebbe bello poter più distesamente ragionare. Ma, de hoc satis. Mentre – a smentita di Vittorio Sereni («un poeta sul quale non è difficile l’accordo tra pubblico e iniziati») – si va allargando la forbice tra valutazione specialistica per cui Saba appartiene senza dubbio alcuno al canone ristretto dei grandi del Novecento, e senso comune che lo considera un “cantaluoghi” di vena facile (anche nella città d’origine, anche nei luoghi deputati, se non alla pratica della cultura, al suo sostegno economico, dove più incontrastato trionfa ciò che Tom Nichols di Harvard ha battezzato «l’era dell’[arrogante, aggiungo io] incompetenza»), ritornare sulle sue pagine, per quanto in quell’orbita evolutiva che come in tutti i poeti mantiene al centro l’Io e soprattutto l’Io, propizia esperienze intellettuali e umane di grande complessità. Siamo, quasi senza saperlo, ai fondamenti della nostra identità individuale e collettiva, là dove il “wozu Dichter?” di Heidegger, nella partecipazione alla parola che consente un autentico “noi”, trova il suo senso più pieno. Ma non c’è solo il poeta cordiale, una sfaccettatura che darebbe ragione, nei limiti certo di un approccio più che ingenuo, ai sostenitori dell’incanto popolare, e poco altro, del cantore di Trieste e una donna (gioca paradossalmente a sfavore di Saba la seduttività della scrittura, che mette istintivamente in sospetto i cultori del novecentesco pathos dell’oscuro). C’è anche l’intellettuale consapevole, aggiornato, grintoso, che non s’accontenta dell’intuizione fulminante, ma è capace di riflessione profonda e di applicazione severa. L’uomo che, nell’Italia ancora percorsa dagli eserciti liberatori, gioca una carta di aperto impegno civile, seguendo la stella polare di Nietzsche e di Freud, e riuscendo a trovare - lui, il perseguitato sfuggito di un soffio alla camera a gas - un modo per dare espressione all’estro, al vitalissimo spirito polemico, all’esigenza del nuovo, a certezze maturate e ruminate nei lunghi anni di sordo fastidio e umiliante ossequio verso il regime nel pieno del suo consenso di massa. Saba inventa così un metodo, modellando un inedito strumento espressivo. Le Scorciatoie appunto. Acute come colpi di fioretto, recalcitranti ad ogni falsità, orgogliose delle proprie credenziali.

      Un libro assolutamente originale sull’orizzonte dei suoi anni (come, del resto, per altri versi, Storia e cronistoria del Canzoniere), che avrebbe potuto rappresentare uno snodo cruciale di aggiornamento culturale se non fosse caduta sul pensiero psicanalitico, negli anni della Guerra fredda, la pietra tombale cattolica e comunista. Radice prima di quelle resistenze alla psicanalisi nella cultura italiana che, a parere di F. S. Trincia, non sono state ancora completamente archiviate.

      Passare le Scorciatoie al vaglio convergente di differenti prospettive critiche – in questa stagione di ristagno culturale o anestetizzata dall’imperante cultura “giornalistica”, che, abituandoci alle incaute semplificazioni, promuove l’effimero, l’occasionale, le chiacchiere – ne schiude la straordinaria ricchezza, rivelando potenzialità non tutte ancora approfondite, nodi che testimoniano dello spessore culturale di Saba, scrittore capace di padroneggiare strumenti espressivi e di muoversi agilmente su campi del letterario anche distanti dal terreno elettivo della poesia. Né arretrato né marginale, come sovente ci si accontenta di pensarlo pure nella città natale. Desta per esempio particolare interesse, a dimostrazione dell’ampiezza di orizzonti e del diapason di sensibilità, l’attenzione che Saba rivolge, nelle Scorciatoie, a temi che definiremmo di sociologia della letteratura (la giallistica), o l’insorgere di una «vena domestica e affettuosa» (L. Cellerino), per dire di due aspetti che i saggi qui raccolti non affrontano.

     Illudersi che tutto ciò possa aiutare a rilanciare, nel segno della complessità, la fortuna di Saba, rivendicandone il ruolo di scrittore di statura mondiale, è forse eccessivo. In primo luogo va detto che la cultura giuliana non gode di buona stampa. Per mera sciatteria, Trieste è stata promossa dal giornalismo dello schermo e della carta a capitale del Friuli, anzi spesso del Frìuli (con cui non ha nulla a che spartire se non amministrativamente in quanto capoluogo della regione Friuli Venezia Giulia), in attesa che Saba, lui stesso, figuri, perdendo la sua specificità (per ora lo rende ancora difficile l’insistenza di canto sui luoghi dell’affetto, tutti triestini), come poeta friulano (consola che la mistificazione sia invece impossibile, nemmeno nel peggiore degli incubi, per Virgilio Giotti, tra i maggiori “dialettali” della letteratura italiana, e di cui in commercio non esiste – emblematica latitanza della città-madre – alcuna edizione di Colori, dopo quella LINT del 1986 ed Einaudi del 1997, esaurite). Come punto secondo, bisogna considerare lo scarso interesse per lo studio della poesia presso un popolo al cui proposito vale ancora l’ironia di Leopardi: «sono più di numero gli scrittori che i lettori» (Zibaldone, 5. II. 1828). Il portato di un diffuso disprezzo per la cultura (chi giunge a Trieste con l’automobile, vede messe in rilievo, sulla targa della città, i suoi memorabilia secondo il sentire ufficiale: la “barcolana” e il caffè), essendosi perduto da noi (ma basta viaggiare in altri paesi per notare la differenza) la consapevolezza del nesso tra ciò che tradizionalmente si definisce cultura umanistica e la crescita etico-civile, le consuetudini di convivenza, la “salute” profonda di una nazione (che non coincide né con il PIL né con il tasso di morbosità). A meno che, conferma a contrario, non ci metta lo zampino, negli intervalli tra gli spot, un Conduttore, uno di quei nababbi saccenti che infestano la TV (si rifletta sullo scandalo di un Boris Pahor, per restare dalle nostre parti, della cui qualità di scrittore ci si accorge a partire dal 2008 di un’apparizione televisiva, quando ha ormai raggiunto la tenera età di 95 anni).

     E l’Università, sento chiedere? Aver moltiplicato istituzioni accademiche per tutti i borghi e castella del Bel Paese, scelta dissennata dell’ultimo Novecento, ha provocato una proliferazione non più sostenibile, che condanna alcune fra di esse all’insignificanza per il ridotto bacino d’utenza, il blocco del turn over, la scarsità di finanziamenti. In particolare nelle facoltà umanistiche, oramai spesso ridotte ad uno spezzatino di insegnamenti tra università viciniori. E qui Trieste, alla cui Università spetterebbe, per così dire, il dovere d’ufficio di battersi per gli autori cittadini, non ha avuto né mezzi né forza per imporsi (non so se sia sintomatico, ma lo cito qui per un caso su cui riflettere: nel saggio La letteratura italiana del Novecento: un itinerario europeo – cfr. La letteratura italiana - Portale di letteratura on line, nato nell’ambito dell’Università di Bologna, www.letteraturaitalianaonline.com.

      F. Milani “dimentica” totalmente Saba, come a dire uno fra i più europei dei nostri poeti, per come colloquia, con perspicuità senza pari nel quadro del suo tempo, con Nietzsche e con Freud). Quasi a simbolo della vittoria della più opaca “normalità” italiana – penso al paese descritto da Leopardi nel Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani – sul grande sogno di crescita morale e culturale che inizia a deragliare negli anni Ottanta. Dunque, che fare? Onestamente il proprio lavoro, mi riferisco al cenacolo di chi scrive di letteratura (ma con l’occhio e con il cuore alla sua funzione civile), mantenersi in linea con quell’“ottimismo della volontà” di una vecchia formula ormai in disuso, tenendo accesa la piccola “lampa” di tommaseana memoria. Questo l’impegno, pienamente assolto mi pare, dei saggi del nostro libro.


Fulvio Senardi
Presidente dell’Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione

    - documento pubblicato in settembre 2018 -

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