BIBLIOTECHINA DEL CURIOSO

VOLTAIRE

Consigli a un giornalista

testo a fronte

a cura di Manuela Raccanello

edito nel 2007

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CONSIGLI A UN GIORNALISTAPer i Philosophes del Settecento francese rinnovare la vita sociale e culturale significa divulgare sapere e conoscenza, strumenti essenziali per rimuovere tutti quegli ostacoli che, spesso frutto di iterati inganni, non permettono alla civiltà e alla felicità umane di concretizzarsi dignitosamente. L’erudizione di tipo enciclopedico, obiettivo illuminista al quale s’informa tutto il secolo, può trovare un contributo efficace nella stampa periodica, in particolare di tipo letterario, costellazione minore ma non meno importante di un universo intellettuale estremamente propulsivo.

 

Dalla voce Journal, redatta da Bellin per l’Encyclopédie, si ricava la definizione del giornale del tempo, ossia «ouvrage périodique, qui contient les extraits des livres nouvellement imprimés, avec un détail des découvertes que l’on fait tous les jours dans les Arts & dans les Sciences». Conseguente a ciò è il profilo del giornalista delineato da Diderot («auteur qui s’occupe à publier des extraits & des jugements des ouvrages de Littérature, de Sciences et d’Arts, à mesure qu’ils paroissent»), che non manca di abbozzarne il codice deontologico: «il auroit à cœur les progrès de l’esprit humain ; il aimeroit la vérité, & rapporteroit tout à ces deux objets».

 

Nel 1737 Voltaire, la cui poliedrica presenza intellettuale domina il secolo, si fa parte attiva in quest’ambito scrivendo i Conseils à un journaliste, sur la philosophie, l’histoire, le théâtre, les piéces de poësie, les mélanges de littérature, les anecdotes littéraires, les langues, et le stile. Con una titolazione sintetica, Avis à un journaliste, i Conseils vengono pubblicati nel 1744 sul «Mercure de France», una delle riviste più diffuse del Settecento francese, accompagnati da una nota redazionale che tace la paternità dello scritto, secondo una strategia letteraria non rara all’epoca:

 

Le Morceau suivant est l’Ouvrage d’un Ecrivain célèbre qui le composa en 1737, ainsi qu’il paraît par la date. Son intention étoit de donner des conseils à un jeune homme qui vouloit entreprendre un journal.

 

L’anno successivo, ad Amsterdam, lo scritto viene pubblicato in veste abbreviata nelle Œuvres de M. de Voltaire e con un titolo, Conseils à un journaliste, che recupera solo in parte quello originario. Da esso si distanzia anche l’edizione londinese delle Œuvres diverses (1746), dove viene trasformato in De la manière de faire un journal, acquisendo un certo tono prescrittivo. Con variazioni più o meno vistose rispetto al testo che si legge nel «Mercure de France», la reimpressione dei Conseils voltairiani continua, per un totale di almeno venticinque nuove edizioni. Nelle pubblicazioni ginevrine del 1765 e del 1771, rispettivamente all’interno del primo volume dei Nouveaux mélanges e del terzo dei Mélanges, il testo voltairiano si riappropria del titolo esaustivo della prima stesura.

 

Patriarca dell’Illuminismo, fautore dell’impegno civile con cui permea le proprie opere affinché siano strumenti contro una società retriva e fondamento di tempi nuovi, Voltaire concepisce la stampa come tramite per l’affermazione di una cultura laica. Inoltre riconosce la necessità di indirizzarsi ai lettori, adeguando il metodo e lo stile in nome della chiarezza, nonché di un’esposizione piacevole e precisa. I suoi Conseils sono indirizzati a un articolista che desideri schierarsi dalla parte dei Philosophes, per diventare un informatore e un divulgatore partecipe di un momento ideologico tra i più fecondi.

 

Il destinatario dei suggerimenti voltairiani si ravvisa in Jean Baptiste de Boyer, marchese d’Argens, giovane giornalista che all’epoca vive in Olanda, dove pubblica articoli che fanno «honneur à la raison humaine», come gli scrive Voltaire in una lettera (dicembre 1736). Di interessi multiformi e di solida cultura, Argens è al suo fianco nell’aspra polemica contro l’abate Desfontaines, esempio di quel genere di «journaliste de haine froide, sévère sans gaieté, méchant et presque fier de l’être», la cui acrimonia culmina nel velenoso pamphlet La Voltairomanie (1738).

 

Nel disegno voltairiano i tratti del marchese sono materia duttile per plasmare la fisionomia ideale del journaliste-philosophe. Brillante, pieno di talento, Voltaire gli riconosce «l’esprit de Bayle» (lettera ad Argens, dicembre 1736), fondatore del mensile letterario Nouvelles de la République des lettres (1684) e prototipo di un giornalismo erudito e critico di cui la stampa ha necessità.

 

Diventare innanzitutto un «savant respecté» (lettera ad Argens, gennaio 1739) è la condizione essenziale per aderire a questo modello; a essa si affianca un secondo precetto fondante, con il quale debuttano i Conseils: «Soyez impartial». È lo stesso imprescindibile binomio normativo – essere dotto ed equo – con il quale si apre il decalogo del giornalista stilato da Diderot, dove l’auspicio di un comportamento equilibrato trova particolare rilievo:

 

Mais ce n’est pas assez qu’un journaliste ait des connoissances, il faut encore qu’il soit équitable ; sans cette qualité, il élevera jusqu’aux nues des productions médiocres, & en rabaissera d’autres pour lesquelles il auroit dû reserver ses éloges [...].

 

Per Voltaire, come sottolinea Jean Sgard, imparzialità è sinonimo di verità, che va ricercata e proclamata; «élevez-vous surtout contre la calomnie», esortano i Conseils, tassello coerente di un’opera più vasta che, demolendo miti e superstizioni, permette il cammino della ragione e del vero.

 

I suggerimenti che Voltaire rivolge al giornalista ideale sono un’eco della sua vasta esperienza, direttamente proporzionale alla curiosità intellettuale che lo pervade, all’interesse per l’attualità, al desiderio di intervenire nelle problematiche del tempo e di sottrarre l’opinione pubblica all’indifferenza. Fino all’ultimo il Philosophe mette a disposizione della stampa la propria erudizione e la propria vibrante energia, contribuendo a periodici come La Gazette littéraire de l’Europe (1764) e il Journal de politique et de littérature (1777).

 

Anche questa attività contribuisce a fare di Voltaire un «être collectif», secondo la definizione di Lamartine (Cfr. Cours familier de littérature), soprattutto per la geniale capacità comunicativa e per l’ascendente che esercita. Voltaire sigla un giornalismo moderno, non solo attraverso articoli dal tratto veloce e con una profusione di lettere che ritraggono la quotidianità, ma anche per certe opere che hanno l’aspetto del reportage, della divulgazione scientifica, della cronaca politica e dell’inchiesta.

 

Suasivo, Voltaire inizia la sequenza esemplificativa dei Conseils proponendo l’argomentazione filosofica, che in un periodico non deve mancare, ma senza sottrarre spazio ad altri ambiti della vita culturale, in particolare alle belle lettere. In precedenza, in una lettera indirizzata a Cideville, aveva manifestato la propria preoccupazione per un certo riflusso della letteratura, a vantaggio degli studi fiolosofici:

 

Les belles-lettres périssent à vue d’œil. Ce n’est pas que je sois fâché que la philosophie soit cultivée, mais je ne voudrais pas qu’elle devînt un tyran qui exclût tout le reste. (lettera a Cideville, 16 aprile 1735)

 

Il giornalista deve comunque acquisire un metodo espositivo e ancor prima un’arte elocutoria adeguata, che renda godibile l’argomento senza peraltro adornarlo troppo. Non mancano indicazioni di carattere deontologico; il giornalista deve essere rigoroso nell’attribuire a ogni personalità citata il giusto merito e condurre la dissertazione con pacatezza («Point d’animosité, point d’ironie»). Evitare l’insolenza nelle controversie è il monito voltairiano, al quale fa eco più tardi Diderot: «qu’il [le journaliste] reprenne sans offense».

 

Una volta indicata la forma che deve dar veste al discorso – conformemente al principio della consonanza dello stile con il soggetto –, Voltaire suggerisce di supportare l’astrazione dei concetti esposti con un breve panorama della loro evoluzione storica. Trovano rilievo, nell’esemplificazione che propone, le grandi acquisizioni scientifiche, che nell’ottica voltairiana – e illuministica in generale – sono il mezzo per costruire un mondo migliore, rigenerando la morale e il cammino dell’umanità.

 

In questo nuovo umanesimo si staglia la vivida figura di Newton, il filosofo e lo scienziato che Voltaire ha studiato di più, appassionandosi in particolare alla legge gravitazionale, che dà una risposta a problematiche fisiche e astronomiche irrisolte e coesione al sistema copernicano.

 

VoltaireEsempio fondante del metodo sperimentale – «Hypotheses non fingo» –, la scienza newtoniana sigla, assieme all’empirismo e all’associazionismo di Locke, il trionfo di una nuova dimensione filosofica basata sull’esperienza, dileguando le concezioni aprioristiche cartesiane. Se Descartes, pur riconosciuto come «le plus grand géomètre de son temps, [...] fit une philosophie comme on fait un bon roman : tout parut vraisemblable, et rien ne fut vrai», Newton prospetta all’umanità assunti nuovi, senza mai mettere «ses imaginations à la place de la vérité, [...] il a vu, et il a fait voir».

 

Voltaire contribuisce in modo determinante alla conoscenza dello scienziato inglese. Convinto della necessità della divulgazione scientifica, scrive gli Éléments de la philosophie de Newton (1738) ai quali, due anni dopo, aggiunge la Métaphysique de Newton, stigmatizzata sia dal clero sia dall’autorità laica.

 

Per il deista Voltaire i risultati degli studi newtoniani rappresentano la garanzia scientifica dell’esistenza divina, che raffigura in un Grand Horloger, ricalcando la figura del Grande Geometra di Platone:

 

Toute la philosophie de Newton conduit nécessairement à la connaissance d’un Etre suprême, qui a tout créé, tout arrangé librement. [...] Si la matière gravite, comme cela est démontré, elle ne gravite pas de sa nature [...] : elle a donc reçu de Dieu la gravitation. Si les planètes tournent en un sens plutôt qu’en un autre, dans un espace non résistant, la main de leur créateur a donc dirigé leur cours en ce sens avec une liberté absolue.

 

La fisica newtoniana mostra la precisione meccanica che regola il cosmo; l’ordine planetario che ne deriva testimonia l’esistenza di un Essere supremo, che dopo aver creato il mondo lo disciplina; ogni controversia tra cristianesimo e scienza si annulla:

 

Les physiciens sont devenus les hérauts de la Providence : un catéchiste annonce Dieu à des enfants, et un Newton le démontre aux sages.

 

L’encomio voltairiano a Newton si estende all’Inghilterra, un paese molto diverso dalla Francia di Luigi XV, un paese progredito e libero che non ha indugi nel riconoscere la funzione sociale del filosofo; dopo averlo onorato in vita, l’Inghilterra ha sepolto Newton «comme un roi qui aurait fait du bien à ses sujets».

 

Dopo i suggerimenti sul modo in cui proporre i temi filosofici, Voltaire consiglia il giornalista su come esporre adeguatamente gli accadimenti storici. Nei Conseils si rintracciano, in nuce, i principi della riflessione voltairiana sulla storia, esposti in particolare nelle successive Questions sur l’Encyclopédie (1771), dove l’entrata Histoire, redatta qualche anno prima per la Summa filosofica di Diderot e d’Alembert, viene approfondita.

 

Sono i principi che si concretizzano nella vasta produzione storica di Voltaire, dall’Histoire de Charles XII (1732) alle ultime modifiche, apportate poco prima della morte, all’ambizioso disegno dell’Essai sur les mœurs. Scostandosi dalla storiografia tradizionale, essa è il quadro dinamico del cammino della civiltà, e l’autore le conferisce la misura dell’opera letteraria, formula necessaria perché il pubblico delle honnêtes gens, al quale è destinata, la legga.

 

Poiché la storia deve dispensare il vero sopra ogni cosa, la trattazione ha l’obbligo di sottomettersi al «respect qu’on doit à la vérité». Voltaire si sofferma su una questione sinonimica: per l’ancien conte appare improprio il nome di histoire. Più tardi, nell’Encyclopédie, tornerà sull’argomento, sottolineando la differenza tra histoire e fable in termini schiettamente antinomici: 

 

HISTOIRE, s. f. c’est le récit des faits donnés pour vrais ; au contraire de la fable, qui est le récit des faits donnés pour faux.

 

Anteriore alla storia, la fable è insita nella natura dell’uomo che, attratto dagli elementi inconsueti e sovrannaturali, ha dato ascolto ai vaticini, ha creduto ai prodigi, radicando volentieri in questi ultimi le proprie origini e le proprie vicende:

 

On sait quel merveilleux ridicule regne dans l’ancienne histoire des Grecs. Les Romains, tout sérieux qu’ils etoient, n’ont pas moins enveloppé de fables l’histoire de leurs premiers siecles.

 

Partigiano intransigente della verità, Voltaire mette al bando le documentazioni non verificabili – in primis quelle che derivano dalla tradizione orale, che per suo statuto destina la realtà a una trasfigurazione fisiologica – e auspica per gli studi storici il cambiamento che, grazie alle scoperte governate dal metodo sperimentale, ha investito la fisica.

 

La storia ha un’utilità incommensurabile, poiché è fonte di insegnamento. Ma, se invece di essere l’histoire des hommes è una miope histoire des rois et des cours o una riduttiva sequenza di battaglie, non è più istruttiva. Questo prospetto generale va applicato al caso particolare; di un grande condottiero non si diranno solo le guerre combattute e le conquiste fatte, ma anche le opere con le quali ha incrementato il progresso umano.

 

Al giornalista, che investe dell’appellativo di «philosophe impartial» – per antonomasia «amateur de la sagesse, c’est-à-dire de la vérité» –, Voltaire porta l’esempio di Alessandro Magno. Di grande statura, il re macedone non ha paragoni tanto che, al suo confronto, sbiadiscono due protagonisti dell’occidentalizzazione europea del XV secolo, come Scanderberg e János Hunyadi. Ma al di là della geniale tattica militare e delle battaglie condotte in nome della grecità, del mitico conquistatore bisogna ricordare le leggi che promulgò, le città di cui fu fondatore e il forte impulso che diede al commercio, poiché «c’est par-là surtout qu’il faut considérer les rois, & c’est ce qu’on néglige». Evocando in questo modo il capitano generale della Grecia, verrà privilegiata la storia in quanto cammino della civiltà e della trasformazione in nome di valori positivi.

 

Il giornalista deve appropriarsi anche di un altro assunto non meno importante del primo: non dar seguito a voci arbitrarie. Voltaire ha difeso in più di un’opera la figura di Alessandro Magno, oggetto di una storiografia che a volte si piega alla leggenda biografica, oltre a mostrarsi poco equanime. Nell’Histoire ancienne (1730-1738) di Charles Rollin l’episodio della conquista di Tiro da parte del macedone si trasfigura in un conte de vieille ricalcato sullo storico romano Giuseppe Flavio, historien romancier, exagérateur, secondo la definizione voltairiana.

 

Per il Philosophe, che evidenzia i limiti della ricerca storica se non muove da una rigorosa selezione delle fonti, «il n’est plus permis de parler d’Alexandre que pour dire des choses neuves, et pour détruire les fables historiques, physiques et morales». Nei Conseils viene imputata di non veridicità la fonte latina – Giovenale – al  pari del ritratto fatto da Boileau, che connota il condottiero greco come un pazzo e un brigante degno solo di lasciare «sur l’échafaud sa tête et ses lauriers» (Boileau, Satyres, XI, v. 84).

 

Al giornalista va il compito di interessare i giovani alla storia moderna, e in particolare al secolo di Luigi XIV, che ha permesso «dans l’esprit humain [...] une révolution qui a tout changé». Per nulla sedotto dalle istanze repubblicane, Voltaire crede fermamente nella monarchia, in quanto forma di governo che risponde in modo esemplare ai progetti riformatori di un dispotismo illuminato, come sottolinea nel Siècle de Louis XIV (1751). Egli non condivide la dispendiosa politica di conquista di Luigi XIV, né le sue esose imposizioni fiscali, né tanto meno l’egemonia di cui investe il clero cattolico; inoltre all’assolutismo francese contrappone l’esempio d’oltremanica, attraente unione di sovranità misurata e di pluralismo religioso.

 

Nonostante ciò il biasimo voltairiano si esplicita solo attraverso un’attenuata riserva e il secolo di Luigi XIV resta, sopra gli altri, il beau siècle, perché ciò che lo qualifica è un poliedrico e incisivo progresso culturale, che è celebrazione dell’esprit humain, e la cui paternità va al monarca. Al cospetto di questa incommensurabile evoluzione epocale, una révolution per l’appunto, i difetti del Re Sole passano in subordine, come dettagli trascurabili: «Malheur aux détails – scrive Voltaire a Jean Baptiste Dubos nel 1738, – la postérité les néglige tous : c’est une vermine qui tue les grands ouvrages».

 

Soffermandosi sulla relatività dei punti di vista, per cui i particolari di un fatto storico possono variare a seconda dell’angolatura della testimonianza, Voltaire si ritaglia un certo spazio nei Conseils per parlare della propria esperienza. Una documentazione scrupolosa e una capillare verifica delle fonti sono alla base dell’Histoire de Charles XII, che inizia a comporre nel 1729. Alla lettura di opere precedenti sul monarca, scritte da Limiers e da Theyls, Voltaire somma la testimonianza di chi ha affiancato il sovrano alla corte svedese.

 

L’Histoire de Charles XII, pubblicata a Rouen nel 1732, conosce diverse riedizioni, che si contraddistinguono per le varianti correttive che modificano la prima stesura. Voltaire tiene conto, in questa instancabile opera di rivisitazione, non solo degli appunti che gli muove la critica, ma anche di quei nuovi apporti della storiografia che ritiene validi, come in parte l’opera omonima che Nordberg, ex cappellano della corte svedese, pubblica nel 1744.

 

Contro ogni tipo di falsificazione degli eventi, Voltaire interroga i documenti degli archivi e delle biblioteche, per cercare di porre rimedio anche al fenomeno degli scritti apocrifi, pubblicati da editori pronti a disconoscere la verità storica in nome del lucro, attribuendo a nomi illustri la paternità dei testi che divulgano. Un giornale letterario ha il doveroso compito di rilevare questo tipo di contraffazione, evidenziando lo svilimento morale, oltre che intellettuale, del fenomeno («Remarquez ici quelle est la faiblesse humaine»).

 

Conformemente all’intento didascalico dei Conseils, l’appunto si completa con un’esemplificazione che rinvia in particolare al Testament politique du cardinal de Richelieu. Intorno all’attribuzione di questo scritto la controversia è accesa e Voltaire scende in campo con una certa temerarietà, manifestando la propria opinione con titoli eloquenti – Des Mensonges imprimés (1749) –, ribattendo puntualmente alle obiezioni che gli vengono fatte, e argomentando su ciò che gli dà motivo di credere il Testament un’opera spuria (Nouveaux doutes sur l’authenticité du Testament politique attribué au cardinal de Richelieu, 1764).

 

Rispetto a quanto scrive nei Conseils («il est incroyable q’un ministre [...] ait intitulé un chapitre, Succinte narration des actions du roi jusqu’a la paix»), qualche anno dopo Voltaire si ricrederà, convenendo sull’autenticità di questa parte del Testament. Se Voltaire risulta perdente nei confronti del puntiglioso Foncemagne, erudito sostenitore dell’autenticità dello scritto, il nostro Philosophe ha tuttavia il merito di sollecitare nei confronti dei testi postumi una condotta nuova, iscrivibile in un moderno rigore editoriale:

 

D’où venait l’édition du prétendu Testament politique imprimé en 1688 ? Pourquoi l’éditeur ne cite-t-il pas ses garants, ses autorités ? D’où a-t-il reçu ce manuscrit ? C’est une pièce si importante par le nom du respectable auteur à qui on l’attribue, par le monarque auquel elle est adressée, par le sujet qu’elle annonce, que l’éditeur est indispensablement obligé de dire et de prouver comment un écrit de cette nature était tombé entre ses mains [...].

 

Assieme alla filosofia e alla storia, le belle lettere devono trovare ampio spazio in un giornale che ha anche il compito di sostenere l’arte. Si parlerà innanzitutto di teatro; alla scena, che lo appassiona, Voltaire riconosce un ruolo essenziale nella vita collettiva, ed è con definizioni al limite dell’iperbole – la plus belle éducation, le plus noble délassement, la meilleure instruction, la consolation et le charme de la vie – che sostiene l’arte drammatica contro gli innumerevoli detrattori. La querelle che lo vede fronteggiare Jean Jacques Rousseau, il quale imputa al teatro gli insanabili guasti di una cancrena sociale, è a tale riguardo emblematica.

 

Più volte nei carteggi, in prefazioni e avertissements, Voltaire connota il teatro come il banco di prova della civiltà di una nazione. Dedicando Tancrède (1760) a Madame de Pompadour, scrive in proposito:

 

C’est d’ailleurs au théâtre que la nation se rassemble ; c’est là que l’esprit et le goût de la jeunesse se forment ; les étrangers y viennent apprendre notre langue ; nulle mauvaise maxime n’y est tolérée, et nul sentiment estimable n’y est débité sans être applaudi ; c’est une école toujours subsistante de poésie et de vertu.

 

Adeguatamente rapportato all’esigenza di novità del pubblico – la nécessité [...] d’avoir des choses nouvelles» è ribadita da Voltaire con tono impositivo –, senza perdere di vista la regola classica della bienséance, il mezzo teatrale è uno strumento efficace, nel contempo ludico ed edificante. A questa qualità si somma il parametro di un’agile gerarchia di valori: «tous genres sont bons, hors le genre ennuyeux», sentenzia Voltaire nella prefazione a L’Enfant prodigue (1736).

 

Nei Conseils la figura di Molière è il fulcro dell’argomentazione sulla commedia; intorno a Corneille e a Racine si enuclea il tema della tragedia. Voltaire plaude all’autore del Misanthrope, che ha saputo osservare la natura umana allontanandosi dall’ipocrisia della cultura ufficiale, e del quale segue le orme, descrivendo l’uomo nella sua universalità e stigmatizzando i falsi devoti e i cortigiani. Molière è l’inimitabile peintre de la France, uno dei classici del regno di Luigi XIV, ed occupa di diritto un posto nel tempio del gusto (Le Temple du goût, 1733).

 

Nel primo Settecento l’eredità molieriana della commedia di carattere è ancora viva in autori come Regnard e Dancourt, ma un po’ per volta si stempera. Il gusto del pubblico cambia e consacra il successo della comédie larmoyante, la cui paternità va a La Chaussée con il Préjugé à la mode, e delle commedie di Destouches, come il Glorieux, preludio del dramma borghese.

 

I consigli voltairiani al giornalista illuminato aderiscono alla temperie dell’epoca; Molière è il più grande autore comico francese, ma ciò non preclude che si guardi con disponibilità di giudizio alle nuove opere teatrali, senza farle soccombere sotto il peso del credito del grande Poquelin. Dinanzi ad autori come Bruyes e Palaprat, Fagan e Dufresny, oltre ai già citati Regnard, Dancourt, Destouches e La Chaussée, Voltaire invita il giornalista a una certa audacia critica («Osez avouer avec courage que beaucoup de nos petites piéces [...] sont au-dessus de la plûpart des petites piéces de Molière»). Da parte sua, la presa di posizione in favore di certe nuove pièces teatrali indubbiamente più interessanti di quelle di Molière non si annuncia meno risoluta («je dirai hardiment... »).

 

Anche nei confronti di Racine e di Corneille Voltaire auspica un giudizio veritiero, che non taccia la faiblesse di certe loro tragedie, e abbozza considerazioni che troveranno un più ampio dispiego in scritti futuri, come l’Éloge de M. de Crébillon (1762) e i monumentali Commentaires sur Corneille (1765). Se nel Temple du goût Molière viene ospitato tra chi deve ancora perfezionare il proprio stile, non del tutto conforme al principio della pureté, Corneille rappresenta il talento suscettibile di vistose cadute, imputabili in particolare alle fadeurs de la galanterie.

 

Nell’architettura gerarchica del tempio il lauro del vertice spetta a Racine, che come Virgilio e Ariosto incarna la fusione della genialità e del gusto. All’erede della tragedia classica, del quale esalta il disegno drammatico per la forza delle passioni, la fisionomia dei personaggi, il dispiego dell’azione e la fluidità del verso, Voltaire però non può fare a meno di imputare di non essere sempre «assez tragique», e invita il critico contemporaneo a tenerne conto.

 

Essenziale, per una recensione «sage & saine», è la strategia comparativa, che permette di presentare al lettore una pièce francese e l’opera straniera dalla quale è attinta, spingendosi anche oltre il paragone binario fino ad ampliarsi, ad esempio, al commento di «quelques scènes de la Phèdre grecque, de la latine, de la française, & de l’anglaise».

 

L’invito alla comparazione di diverse opere, e quindi di differenti culture, muove dalla curiosità intellettuale che Voltaire personifica e che intende trasmettere. Attraverso questa strategia critica egli prevede un maggior valore informativo per il periodico che le dà spazio, e uno strumento per affinare la capacità di giudizio del lettore, al quale vanno dati gli strumenti per diventare un homme de goût:

 

[...] il sera ému à la premiere représentation qu’il verra d’une belle tragédie ; mais il n’y démêlera ni le mérite des unités, ni cet art délicat par lequel aucun personnage n’entre ni ne sort sans raison, ni cet art encore plus grand qui concentre des intérêts divers dans un seul, ni enfin les autres difficultés surmontées. Ce n’est qu’avec de l’habitude & des réflexions qu’il parvient à sentir tout-d’un-coup avec plaisir ce qu’il ne démêloit pas auparavant.

 

L’educazione al gusto, al discernimento di ciò che è universalmente bello, investe necessariamente il piano collettivo, perché solo attraverso questa acquisizione intellettuale una società può dirsi illuminata. A tale forma di emancipazione culturale deve essere finalizzata anche un’adeguata presentazione al pubblico delle opere poetiche e letterarie in genere. Con chiarezza ed economia lessicale, le stesse qualità richieste all’arte del recensore, nei Conseils viene esplicitato un esempio di critica poetica. Attraverso la finzione letteraria dello scritto altrui («Un de mes amis, examinant trois épîtres... »), Voltaire commenta l’Épître à Thalie di Jean-Baptiste Rousseau, in parte già analizzata nell’Utile examen des trois dernières épîtres du sieur Rousseau (1736).

Dell’examen echeggia il fondamento prescrittivo:

 

Voici deux règles, regardées comme infaillibles par de très bons esprits, pour juger du mérite de ces petites pièces de poésie. Premièrement, il faut examiner si ce qu’on y dit est vrai, et d’une vérité assez importante et assez neuve pour mériter d’être dit. Secondement, si ce vrai est énoncé d’un style élégant et convenable au sujet,

 

nonché la schiettezza del giudizio: «Je ne connais effectivement rien de plus vide que ces trois Épîtres nouvelles».

 

Lo strale di Voltaire muove anche da un’investigazione purista della lingua, per cui l’Épître viene percorsa da un’inesorabile lente d’ingrandimento che ne evidenzia gli abusi. Nello specifico la critica letteraria si vena di toni polemici, in quanto l’autore del testo stigmatizzato è inviso a Voltaire non solo per i suoi biasimevoli couplets, ma anche per la velenosa serie di intimidazioni e di accuse che gli rivolge.

 

Alla radicata motivazione intellettuale s’intreccia l’offensiva tipica del pamphlet voltairiano, che non risparmia il malevolo Jean-Baptiste Rousseau, desideroso di vedere il Philosophe «brûler vif dans ses propres ouvrages» (Épître au P. Brumoy). Con toni più espliciti questa inimicizia trova spazio, nel 1738,  nella Vie de M. J.-B. Rousseau, testimonianza di una delle tante querelles che coinvolgono Voltaire, delle quali i lettori del tempo si mostrano avidi, poiché esse rispondono alla misura settecentesca della platealità.

 

Nei Conseils si rintraccia l’eco di altre diatribe; anche in questo scritto è presente il rinvio alle vicende personali, come in genere accade in tutta l’opera voltairiana e in maniera sempre più rilevante, in proporzione allo spessore che acquisisce negli anni la statura dell’autore. In questo caso Voltaire non parla in modo palese dei fatti evocati, ma all’epoca sono talmente di dominio pubblico che bastano due nomi, quello di Thémiseul de Saint-Hyacinthe e dell’abate Desfontaines, per inquadrarli. Come bastano due sintagmi pressoché uguali, «infâme brochure» e «libelle infâme», per alludere agli scritti antivoltairiani dell’uno e dell’altro, l’Apothéose, ou la Déification du docteur Masso e l’acrimoniosa Voltairomanie, culmine di lunghe diatribe denigratorie.

 

Ancora prima della pubblicazione dell’Apothéose (1732), Voltaire e Saint-Hyacinthe manifestano una disistima reciproca. In Inghilterra, dove i due si incontrano, Saint-Hyacinthe giudica la condotta di Voltaire non proprio conforme a una «morale exacte», e in nome dell’onore della Francia minaccia di screditarlo pubblicamente. Qualche tempo dopo, con le Lettres critiques sur la Henriade de M. de Voltaire, disapprova, peraltro in termini piuttosto moderati, il primo atto del poema epico che il Philosophe dedica alla figura di Enrico IV.

 

La disputa è aperta e Voltaire, coerente con il motto che ha adattato alla propria tempra militante – qui plume a guerre a – affila la penna come una spada. Da qui, senza risparmio, le sferzate a Saint-Hyacinthe, fino a negargli, nei Conseils, la paternità dell’opera che gli vale la gloria, lo Chef d’œuvre d’un Inconnu, connotandolo in sovrappiù come una «vile canaille» che disonora le belle lettere e la propria patria. Al giornalista cui si rivolge Voltaire chiede una palese partigianeria, ingiungendogli, a proposito dell’Apothéose, di far conoscere al pubblico «l’horreur & le ridicule de cet assemblage monstrueux».

 

La polemica con l’abate Desfontaines ha accenti più crudi ed è ancora più emblematica delle querelles letterarie dell’epoca, che non risparmiano la dimensione umana, oltre che intellettuale, dei protagonisti. Desfontaines dirige da poco il Journal des savants, quando viene accusato di pederastia e imprigionato. Voltaire riesce a farlo liberare e a sottrarlo all’esilio; la magnanimità del suo intervento non è del tutto estranea all’interesse per l’abate in quanto direttore dell’insigne periodico, che celebra come «le père de cette multitude de journaux, enfants très souvent peu semblables à leur père».

 

Per nulla memore dell’ausilio ottenuto, Desfontaines recensisce con acredine le opere di Voltaire, in particolare nella propria rivista letteraria, le Observations sur les écrits modernes. La risposta del Philosophe non si fa attendere ed è tutta nel pungente Préservatif (1738), che mette in guardia i lettori che non conoscono bene «les guerres des auteurs», né il fatto che «la plupart des journalistes qui s’érigent en arbrites font souvent eux-mêmes les plus violents actes d’hostilités».

 

Il pamphlet voltairiano è perentorio: le Observations sono solo «petites gazettes volantes» in cui campeggiano l’ignoranza e l’impudenza dell’abate, esempio come pochi del «déplorable brigandage» che corrompe l’ambiente letterario.

 

Di rimando alle bacchettate del Préservatif, la cui portata è tale da dar vita a voltairiser, neologismo che indica i modi della dura reprimenda, Desfontaines pubblica la Voltairomanie, culmine dell’acrimonia antivoltairiana che si abbatte in particolare contro le Lettres philosophiques, «lettres diaboliques» che dissacrano valori acquisiti.

 

Consigliato sugli argomenti da trattare, oltre che sul metodo migliore per esporli, il giornalista riceve in ultimo indicazioni utili relative alle lingue moderne e allo stile più consono al suo dettato. Ritenendo dannoso leggere le opere straniere in traduzione, alla quale Voltaire non accorda la possibilità di rendere appieno i testi de génie, («le génie n’est presque jamais traduit»), è necessaria la padronanza dell’inglese e dell’italiano.

 

Se Voltaire riconosce alla lingua francese del XVII secolo, «la belle langue qu’on parlait dans le siècle de Louis XIV», la supremazia nell’ambito culturale, ciò non toglie che consideri l’inglese superiore in quanto a energia immaginativa, e l’italiano più abondant e più maniable.

 

Alle due lingue moderne Voltaire affianca il greco («le plus beau de tous les langages»), idioma che conosce poco, ma del quale sottolinea l’importanza per poter risalire all’etimo di molte parole dotte, oltre a leggere senza bisogno di mediazione gran parte della letteratura antica. Il discorso voltairiano ritorna sulla problematica traduttiva; soltanto un «mauvais journaliste» può accordare la preferenza all’Iliade tradotta da Houdar de La Motte anziché all’originale di Omero. L’adattamento del poema greco, esplicito già dal titolo – L’Iliade en vers français et en douze chants, (1714)è occasione di numerose critiche, ribadite da Voltaire:

 

On doit répéter ici que ce fut une étrange entreprise, dans Lamotte, de dégrader Homère, et de le traduire ; mais il fut encore plus étrange de l’abréger pour le corriger [...].

 

Se non riconosce al «correcteur d’Homère» la legittimità dell’operazione riduttiva, il Philosophe è comunque convinto che i traduttori debbano stemperare il poema epico per adeguarlo al clima socio-culturale contemporaneo. E rivolgendosi a Madame Dacier, che con la sua traduzione dell’Iliade più rispettosa dell’originale viene contrapposta a La Motte nella Querelle Homérique, Voltaire scrive: «La raison en est, Madame, qu’il faut écrire pour son temps, et non pour les temps passés».

 

Sullo stile, che per Voltaire si condensa in una triade dai contorni precisi – régularité, clarté, élégance –, i Conseils annunciano la dissertazione più ampia, a tale riguardo, delle Questions o di alcuni articoli redatti per l’Encyclopédie. Resta salda e di segno purista la convinzione voltairiana per quel che riguarda i neologismi:

 

Pourquoi éviter une expression qui est d’usage, pour en introduire une qui dit précisément la même chose ? Un mot nouveau n’est pardonnable que quand il est absolument nécessaire, intelligible et sonore. On est obligé d’en créer en physique ; une nouvelle découverte, une nouvelle machine, exigent un nouveau mot : mais fait-on de nouvelles découvertes dans le cœur humain ?

 

Altrettanto ferma si mantiene la condanna del linguaggio di certi scritti, trasformato in un inopportuno crogiolo di stili che conduce unicamente a «défigurer les sujets les plus sérieux en croyant les égayer par les plaisanteries de la conversation familière». L’allusione criptica a Fontenelle, che a tale riguardo è presente nei Conseils, viene replicata più tardi in Micromégas (1752) con il personaggio del Saturnien. Questi, come Fontenelle nelle Lettres galantes du chevalier d’Her, tratta un argomento scientifico utilizzando paragoni del tutto inadatti («la nature est comme un parterre dont les fleurs... comme une assemblée de blondes et de brunes... comme une galerie de peintures dont les traits... »).

 

Dinanzi alla perniciosa volontà di stupire con espressioni non adeguate ai temi trattati, Voltaire richiama il giornalista al magistero della franchezza, che eluda ogni mistificazione. Con questa nota si chiudono i Conseils, indicazioni che aderiscono con coerenza all’istanza illuminista e che in parte anticipano alcune voci dell’Encyclopédie. La vocazione per la verità, che permea lo scritto, trova adeguata rispondenza in un percorso di carattere didattico-ideologico, acceso a tratti da una polemica che qui non si stempera in quella vena sottilmente ironica che invece si apprezza in altre opere, principalmente nei contes philosophiques.

Manuela Raccanello

Manuela RaccanelloManuela Raccanello, Professore Straordinario presso l’Università degli Studi di Trieste, ha pubblicato saggi e monografie su scrittori francesi e francofoni (Simon, Duras, Bertin, Maupassant, Zola, Bosquet, Norge, Ghelderode) e ha tradotto autori del XIX secolo (Maupassant, Zola) e del XX secolo, Michel de Ghelderode (Sortilegi, Panozzo, 2001) e Pascal de Duve (Izo, Edizioni del Cardo, 2006), per quanto riguarda la prosa, Tahar Bekri (Il rosario degli affetti, Bulzoni, 1997) e Nadia Tuéni (La terra immobile, Sugarco, 1999), per quanto riguarda la poesia. Incentra in particolare la propria ricerca sulla storia e sulla critica della traduzione letteraria; in tale ambito ha pubblicato saggi sulla traduzione del XVI secolo in Francia e sulla traduzione d’autore, nonché studi su alcune traduzioni italiane di Maupassant (Boule de suif), Voltaire (Candide), Nerval (Sylvie) e Prévost (Manon Lescaut).

 

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