IL BANCO DI LETTURA

dal numero 33/2007

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RITRATTO D'AUTORE
PIETRO SPIRITO

a cura di Fulvio Senardi

estratto da CONTRIBUTI, dalla pagina 23 del n° 33/2007

Pietro SpiritoAnche chi conosce Pietro Spirito soltanto per le vivaci “spalle” in cui commenta romanzi, libri di viaggio, racconti sul giornale quotidiano di Trieste (e sono i più, in un Paese di non-lettori che si accontentano di sbirciare frettolosamente il giornale fra un sorso e l’altro del caffè, al bancone dei bar) non stenterà a credere che si tratti di uno dei più brillanti giovani narratori del Nord-est. Uno scrittore dal percorso ormai tanto ricco da consentire, a chi di letteratura si occupa professionalmente, di individuare, con le costanti di pensiero e i modi di stile, le sfaccettature di una poetica: in breve, con tutte la cautele del caso, di stilare un bilancio. Lo si farà, nelle pagine che seguono, privilegiando alcuni libri più rappresentativi, quelli che hanno maggiormente marcato la sua ricerca di narratore, presentando solo in nota una bibliografia più completa.
“Il 24 settembre 1719, all’età di ventinove anni, Pierre Dumont, commerciante di gioie, dopo aver a lungo vagato e conosciuto gli uomini e i loro inganni, s’accordò in società con Dio”. Così l’attacco, che riassume l’esile filo conduttore, del breve romanzo di Pietro Spirito, Vita e sorte di Pierre Dumont socio di Dio, il primo dei libri che prenderemo in esame. La vicenda, che non ha la ramificata apertura romantica di un’opera-mondo, ma, come vuole l’epoca dell’ambientazione, corre su un rettilineo – e sorridente – crinale swiftiano, racconta di come Pierre Dumont, mercante intraprendente ma non sempre, ahilui, baciato dalla sorte, si fosse deciso a fare società con Dio. Se la decisione scaturisse da un guizzo dello spirito di carità acceso in Pierre da padre Carnesecchi della Compagnia di Gesù, che tante parte aveva avuta nella sua educazione, o provenisse da un piccolo e forse inconsapevole calcolo opportunistico, che non ripugna anche ai mercanti più timorati di Dio, rimane avvolto nel dubbio; come prevede del resto il modulo narrativo cui Spirito fa garbatamente il verso e che non richiede quelle spietate incursioni nell’Io cui ci ha abituati il romanzo di introspezione. Fatto sta che Dumont, con tanto di contratto firmato e bollato, rende solenne promessa di cedere a Dio, cioè ai bisognosi, la metà dei propri guadagni. Impegnando a ciò anche i suoi eredi. Caduto vittima di un mortale incidente all’età ancor giovane di 35 anni (la scena che, nelle ultime pagine del libro, descrive l’accaduto, forse addirittura un omicidio visto che al timone della carrozza che lo bracca, lo raggiunge, lo schiaccia Pierre intravede la sagoma lugubre di un rivale in affari: “gli parve, gli sembrò la torva figura dell’Alsazo”, ha il cupo rimbombo di certo Settecento rivisitato dagli scrittori romantici), l’obbligazione assunta dal defunto diventa affare della moglie, Laurette, e del figlio Jean-Paul. Di fronte a loro, reticenti a concedere quanto dovuto, si ergono invece a esigere pieno e pronto rispetto delle clausole contrattuali gli avvocati del parigino Ospitale Generale, l’istituzione cui è demandato un officio di assistenza e di beneficenza. Da qui una causa in tribunale fra le più singolari e curiose perché si tratta di decidere che cosa spetti a Cesare e che cosa a Dio, anzi, più sostanzialmente, se sia lecito all’uomo fare società con il Signore e che atteggiamento debba assumere la legge di fronte a un impegno così inconsueto e imbarazzante. Le diverse interpretazioni del quesito nella prospettiva di una giurisprudenza che i contrapposti avvocati cercano di addomesticare a proprio favore, vengono poste, come una ricorrente e ben evidenziata cifra iniziale, in testa a ciascuno dei capitoli che raccontano le tappe sfortunate della carriera del commerciante Dumont; e la sua vicenda, ripercorsa a ritroso, non solo guadagna, così incorniciata, un’ulteriore ragione di unità ma finisce per vibrare del peculiare accordo che proviene da un linguaggio di burocratica cavillosità e di avvocatesca pedanteria con acquisto, anche in questo caso, di un arcobaleno di sfumature ironiche. Considerando questo aspetto si potrebbe addirittura sostenere che la particolare scelta di scrittura miri precisamente a ostacolare con tutti i possibili mezzi i processi di identificazione (assimilando anche in questo caso, e con indiscutibile abilità, un aspetto della narrativa settecentesca, in netta controtendenza rispetto all’“appendicismo” che trionfa, a tutti i livelli, nella narrativa contemporanea), con una messa a fuoco carica di sottintesi ironici che distanzia il protagonista, ridotto potremmo dire alle dimensioni di un insettino intrappolato dentro una goccia d’ambra. Aleggia infatti sopra di lui, come funzione di un capriccioso e irridente dio creatore, uno sguardo narrativo tanto sornione e divertito quanto poco appassionato e partecipe.Cronaca della città vuota
Che l’ironia sia il tono dominante del racconto (e che l’interpretazione debba necessariamente prenderne atto) lo documentano in effetti altre spie: di ordine contenutistico, in primo luogo, e penso, solo un esempio, all’inaspettato risvolto di poeta amoroso che viene attribuito all’altrimenti retto ed ascetico padre Carnesecchi; o al modo nel quale vengono disegnati i personaggi, con un tratto netto, ma tutto di superficie, come certe figurine nella pittura del secolo, e le cui ombre di tormento sono risolte in sorridente giocosità da un narratore che, ariostescamente, tutto domina, planando sul mondo come da limpide altezze. Oppure, ancora in tema di ironia, la si può facilmente riconoscere negli epiteti che definiscono la personalità del protagonista, mettendo volta per volta in rilievo un suo particolare modo di essere, così da farci incontrare ora il pauvre Pierre, ora un Pierre l’aventurier, e poi, via via, Pierre amoureux, honnete, malhereux, ecc. Momenti variati di un’esistenza che nelle sue fasi alterne mette in luce diverse qualità, stati d’animo, inclinazioni; non certo novecentesche maschere dell’Io, a celare una censurata o inibita identità originaria, ma forme di una mutevolezza senza tormento né angosce, come ci si attende da un Settecento insieme razionalistico e lezioso, che ama bautte e giochi da salotto, al tempo stesso picaresco e libertino, e da un personaggio che, per quanto non alieno da pietistico timor di Dio, non sa negarsi alla curiosa scoperta del mondo, come vuole una Modernità ai primi passi, avida più di ogni altra cosa di conoscenze e di esperienze (il “tanto moto, tanta gioia” celebrato da Sterne). Un mondo che si manifesta per nervature e midollo, come successione di episodi e storie nella storia, e scenari e mises en abîme di sapore appropriatamente settecentesco e teatrale. Da qui un consistente numero di parentesi narrative che, deliziosamente circoscritte, sanno colpirci senza travolgerci, come se osservassimo un cammeo di elegantissima fattura capace di parlare, più che al cuore, al nostro senso estetico: le pagine che raccontano, per esempio, la scoperta dell’amore da parte di Pierre fra le braccia quasi materne di Violette; il ritrattino di Serafio, compagno del protagonista nel suo viaggio verso le Americhe (dove anzi sembra quasi di poter riconoscere una riflessione sulla natura linguistica del romanzo stesso, visto che le storie di Serafio, che “pure sa farsi intendere al meglio, avendo la sua loquela un non so che di persuasivo”, sono “narrate in verità in un idioma mai prima udito, ove si mesciano le favelle di tutte le genti conosciute”); la paginetta che descrive l’incontro con le balene, compresa anche questa nella parte del volume che incastona il sapido giornale di viaggio di Pierre Dumont, dove pare quasi di cogliere lo stupore metafisico di un secolo a metà strada tra Arcadia e razionalismo, nell’attimo in cui intuisce la forza profonda e travolgente di quella tensione cosmica e interiore che molto tempo dopo l’uomo chiamerà brama o libido:

Ieri vedemmo una balena, la prima (…) Da alcune notti esse ci tengono desti coi loro lamenti, che i marinai dicono essere affanni d’amore. Io dapprincipio rimasi alquanto impaurito da questo pianto, un suono come mai avevo udito e che ritengo alcuno istrumento di umana fattura possa mai imitare. Sibbene, io credo, vi possano pur essere pene d’amore tali da costringere l’animo nostro a un sì potente dolore, un piagnimento vasto inverso il mondo tutto, quasi a voler chiedere a Iddio medesimo di por almanco fine a questa febbre e bramosia.
Ma poi, ciò che si può nomare canto mi è sembrato meno spaventoso, e anzi vi odo un che di meraviglioso, e provo uno struggimento confortante, come se questo canto raccomandasse di non aver timori degli abissi oscuri, gelidi e profondi e densi degli oceani, ché anzi vi è dolce penetrarvi e scendere al fondo, come perdersi in un gran sonno. Più che mai, odo in quei lagni, Dieu seul est mon témoin.

Il lungo passo citato, forse la pagina più suggestiva del libro, nutrita com’è di una particolarissima sostanza sentimentale, ci mette in stretto contatto con lo stile del romanzo, libero da ogni soggezione realistica e assai lontano dallo scorrere dimesso di codici solo comunicativi. In effetti il racconto celebra la sua apoteosi in quanto manufatto linguistico: sarebbe lungo e noioso stilare un glossario delle parole rare, tecniche, arcaiche e letterarie di cui è il gremito palcoscenico, ma si potrebbe almeno cominciare, a mo’ di esemplificazione, dalla prima lettera dell’alfabeto. Con sorpresa allora toccherebbe registrare il quattrocentesco acchinare (umiliare, lasciarsi persuadere), documentato in San Bernardino, il guittoniano affaitare (francesismo di antico conio che vale per adornare), il boccacciano e quindi romantico (ma di rarissimo impiego) ajato, nell’espressione “andare ajato” cioè gironzolare. C’è in tutto ciò, con evidenza palmare, l’impronta di Consolo, il maestro del contemporaneo scrivere difficile dei narratori, ma ciò che non fa per nulla spiacere la maniera di Spirito è il retrogusto ironico che smussa con un sorriso accomodante il filo tagliente del trobar clus dello scrittore siciliano. Continuando gli assaggi si scoprirà assai presto che la lingua messa in opera da Spirito non trova la sua legittimità sul versante filologico (manca ogni intenzione di elaborare un universo linguistico di sostanza storicamente coerente), bensì su quello scapigliato della fantasia: il parlare artificiato della Vita e sorte profuma di falso antico; il suo preziosismo, distillato per alambicchi vocabolaristici, e con tanta perizia da sembrare il prodotto di una verve charmante, certo, ma naturale, non cerca in alcun modo di nascondere l’inganno perché ci vuole partecipi, anzi, complici del proprio gioco erudito. La sfida arcigna e intransigente di Consolo, intesa a denunciare con l’asprezza di un sillabare aulico la sciatteria dei gerghi di massa si volge in Pietro Spirito in un eccitante prurito (come la malattia psico-somatica del protagonista), chiamandoci a godere la garbata verve antiquaria della scrittura. Siamo nel Settecento, per Bacco, ed ogni impuntatura risentita parrebbe del tutto fuori luogo. Un Settecento contraffatto come sui passi di danza di certi Rosenkavalieren fin-de-siècle, tutto interno alla magia della letteratura, ma senza un filo di supponenza, e che profuma, sentore magnifico, di teatro e di fiaba. Certo, a scavare dentro le intenzioni, non potrà sfuggire che la passione lessicografica di Pietro Spirito (nulla a che fare con il delirio carnale di un D’Annunzio) è il rovescio della medaglia di una inclinazione “ecologica”, di una testarda volontà difensiva che, senza sfogarsi in esplicite denuncie (ne hanno scritte di assai taglienti La Capria e Consolo), si nutre delle parole della tradizione per riaffermarne i valori, in un Paese la cui quotidianità espressiva è ormai tanto degradata che non è difficile sentirsi dire frasi del genere: “la privacy è un optional” o “”un ticket per il day hospital”, e via sproloquiando. Grazie dunque Spirito, per averci mostrato come la narrativa possa spendersi, fra gli altri infiniti compiti che le spettano, in una missione di moralità elementare, che significa, innanzitutto, rispetto della lingua, il patrimonio di noi tutti.Le indemoniate di Verzegnis
Alcuni anni dopo un nuovo libro, e con esso una consistente evoluzione: si tratta delle Indemoniate di Verzegnis (2000), dove Spirito ci offre la cronaca romanzata di un misterioso episodio dell’estremo nord-est d’Italia: in un angolo della Carnia ottocentesca si intrecciano miseria e superstizione, inquietudini femminili, agoscianti come le rupi ed i boschi che rinserrano il minuscolo paese, e maneggi interessati di notabili locali, laici ma soprattutto ecclesiastici. La posta in gioco è l’egemonia: egemonia sulle coscienze che può propiziare conquiste più redditizie, in campo politico e civile. A questo fine giungono dunque utili anche i deliri isterici delle “indemoniate di Verzegnis”, fenomeno di psicosi collettiva degno dell’attenzione di Lombroso (o della penna di Huxley, quello dei Diavoli di Loudun, per intenderci), ma metafora, nella prospettiva di Spirito, di una patologia sociale irrimediabilmente cronica nel nostro Paese, di cui si cerca di isolare alcuni dei nodi centrali; sempre però con la mano sapientemente leggera di chi conosce, e ha meditato, l’esempio di Sciascia. Così, senza rinunciare all’arcobaleno di possibilità offerte dal romanzesco, senza abdicare alla fascinosa “reticenza” della parola letteraria, lo scrittore ci guida per mano in un severo esame della società italiana da sempre lacerata tra tentazioni regressive e spirito di progresso, tra esigenze legate al “particulare” e dedizione (scarsa) all’interesse collettivo, tra volontà rabbiosa di conservare e impegno, spesso velleitario, di cambiamento. Dramma che continua ancor oggi, oggi anzi più che ieri, a quanto insegna la cronaca politica (che ha visto un magnate dei Media scendere rumorosamente in campo per difendere i propri interessi di bottega e monopolizzare il dibattito politico con gli estenuanti tiri alla fune con la magistratura); una situazione di fronte alla quale Spirito, pronto a tirarsi da parte per lasciar parlare i fatti, evita tanto la polemica urlata, quanto atteggiamenti di qualunquistica, se non complice rassegnazione. Oltre a questo assillo etico-politico, il libro esibisce un consistente versante di ricerca d’espressione: è la scrittura che si nutre di se stessa, che celebra la liturgia avanguardistica dell’autonomia del significante. Ecco quindi che in un contesto di stile sempre di alta qualità letteraria, si accendono improvvise le fiamme di un amore di parola (più cerebrale che sensuale, più filologico che estetizzante) consapevole e praticato, e la narrazione derapa (ma senza mai precipitare!) lungo una impervia china “gaddiana”. Una fitta selva di vocaboli rari, di espressioni disusate, tecniche, arcaiche o letterarie, vena la pagina con ramificata capillarità, creando un intreccio di ironiche contaminazioni, di eruditi riciclaggi, di vocabolaristiche elencazioni, proprio come nel settecentesco divertissement costruito intorno al destino di Pierre Dumont: vi trovano posto, per limitare i prelievi al solo primo capitolo, il letterario “fugare”, il raro “ombrato” (per “offuscato”), il desueto “brividìo”, l’arcaico e dantesco “divimare” (per “sciogliere”), il colto “volitare”, il raro “urtamento”, ecc. ecc. Cascata di gioielli che precipita, più di sovente, a gruppi triadici, con effetti non sempre felicissimi visto il loro meccanico ricorrere: e così Giovan Battista, uno dei personaggi, verrà descritto come virtuoso “di bietta, chiavaccio e mazzapicchio”, Verzegnis apparirà “assente, distante, immiserita” (ivi), perché gli echi del mondo vi giungono “attutiti, flebili e uggiosi: un mormorio sommesso, strisciante e talvolta foriero di vaghe sventure” (ivi), e così via. Grappoli di sinonimi non certo spaesati o dissonanti, ma sicuramente tangenziali rispetto alla curva del narrare: punti di convergenza di fiction e filologia, a ricordare che la letteratura è anche tecnica, manufatto, artificio di parole, e a suggerire, dietro la maschera troppo corriva e modaiola dello scrittore “ispirato”, un io operativo e manipolatore; l’effetto di straniamento è così assicurato, il mito della naturalezza del segno demistificato, l’immedesimazione - ambiguo nume della moderna fiction di intrattenimento - messa alle corde, il ritmo delle vicende sapientemente rallentato, disattivato infine il meccanismo di “speculazione sull’effetto” in cui T. W. Adorno ha riconosciuto, già negli anni Sessanta, il carattere saliente dei prodotti della cultura di massa. Il mestiere, comunque, non è tanto prepotentemente esibito da inceppare quella consistente, e non tanto segreta, vocazione civile di cui si è parlato poc’anzi. In fondo, e ciò può concludere l’analisi del libro, è proprio questa la sfida da vincere per un filone che lega la propria identità a forme avanzate di ricerca espressiva: appropriarsi di quello spazio di consapevolezza civile e di spessore umano che separa il divertissement dall’arte autentica. Trasformare il gioco delle forme - proprio perché non resti solo gioco - in uno strumento di indagine, in uno scandaglio nel mistero dell’uomo e nelle dissonanze della società, colmando quello iato tra la letteratura e la vita che è l’abisso dentro il quale affondano molti libri impacciati da una zavorra di arabeschi.
Dovranno passare tre anni prima che appaia nelle librerie un nuovo libro di Pietro Spirito; quello Speravamo di più (2003) che gli conquisterà un posto nella cinquina dello Strega. Ed è un incontro con uno scrittore che non conoscevamo. Avvezzi ai virtuosismi espressivi di chi si dichiarava discepolo di Consolo e del grande Gadda, la nuova maniera di Pietro Spirito, uno stile semplice e cordiale, ci mette di fronte a un brusco cambiamento di rotta. Interessante metamorfosi in una stagione in cui l’evidente impegno di molti scrittori consiste in una specie di fedeltà a se stessi, specialmente se ciò significa sfruttare fino alla nausea una formula di successo, granitica come le lapidi dei cimiteri. Leggete un libro della Tamaro, di Baricco o di De Carlo, o peggio ancora, un romanzo di Camilleri, ed è come averli letti tutti: triste deriva seriale della narrativa dell’età di massa. Del resto ci vuole coraggio per cambiare, di fronte ad un pubblico pigro che nella lettura, più che uno stimolo a riflettere, vuole conferme per consolanti abitudini. Ecco invece, come si diceva, lo stile semplice e cordiale del nuovo libro di Spirito, cosa che non equivale per nulla a pressappochismo e sciattezza. É fare andare invece il motore di potenza, piuttosto che imballarlo in laceranti fuori giri: stile, in altre parole, maturo e consapevole. Chi sa scoprire nella rinascita di Borgo Sant’Aquila, il paesino dell’ambientazione, un’“atmosfera sfrigolante”, o coglie, nel carattere del nuovo parroco, una capacità di visione “levigata e conclusiva” non può passare per uno scrittore povero di mezzi; al contrario un narratore sobrio per scelta responsabile, che si è deciso ad imboccare una strada di castità espressiva riconoscendovi una forma intrinseca di moralità, e va così adeguando la scrittura ad una nozione, né invadente né gridata, di impegno etico, di passione civile; quell’orizzonte che già nel libro precedente conferiva al racconto una tonalità particolare, un retroterra dal sapore “buono”. La curiosità per i linguaggi e per le sfaccettature dell’espressività, che non si sfoga per canali “gaddiani”, trova invece la strada dei riporti dialettali, un modellarsi, in termini diremmo “sociolinguisitici”, dell’interesse di Pietro Spirito per l’uomo in specifici contesti della vita sociale: la sua prosa non cessa così di “spumeggiare”, ma senza effetti di ubriacatura, come un invito semmai a pacate riflessioni. Il racconto è incalzante e compatto, lo sostiene un’invenzione astuta: tallonare, con occhio affettuosamente attento, il lento inserimento di uno straniero, per l’esattezza un giapponese, in un borgo della fascia prealpina, negli anni del secondo Dopoguerra e del successivo “miracolo economico”. Borgo destinato ad essere sorpassato dalla storia, a deperire di disoccupazione e spopolamento, e quindi metafora dell’inevitabile tramonto di modi di vita poveri ma schietti, a sparire fagocitato dalle acque di una diga che produrrà energia per la città. Il giapponese, o meglio il “cinese” come recita la voce narrante facendo eco al comune sentire di un ambiente che vive ancora di leggende e di stupori, offre la possibilità a Spirito, e al personaggio che ne è portavoce, di vedere le cose dal di fuori, di offrire, ai lettori che sono figli, o vittime, di trasformazioni radicali e snaturanti, uno specchio fedele del più recente passato: uno specchio che restituisce il volto vero, strappando la maschera dell’ovvio, a processi sociali ed economici che hanno cambiato alla base, e non sempre in meglio, consuetudini di vita, pensieri e coscienze, immaginario e senso morale. La seconda parte del romanzo, quasi a rendere concreto il raccordo tra i destini e la Storia, allinea, in brevi lacerti di cronaca, alcune emblematiche tappe delle “magnifiche sorti e progressive”: l’arrivo del frigorifero, la diffusione della televisione, dei flipper e dei juke-box perfino nei baretti di paese, la discesa dell’uomo sulla luna, il computer, intorno al quale si affanna il protagonista, negli ultimi capitoli del libro e il cui ronzio fornisce la cornice, quanto mai appropriata, all’incontro d’amore che definitivamente lo traghetta (o lo scaglia?) nella “modernità”; causando cambiamenti sempre più frenetici il progresso si allarga in vortici tumultuosi, mentre la speculazione e l’affarismo lo pilotano verso esiti spesso catastrofici. Volevamo di più dà voce alla rassegnata coscienza di chi è consapevole di un’occasione perduta, di una possibilità di crescita concorde ed armoniosa di beni materiali e di coscienze; una possibilità a cui proprio il “cinese” sembra garantire concretezza, con l’istintivo senso di equilibrio di un popolo che da secoli vive nel rispetto delle proprie tradizioni, facendo della disciplina interiore (da qui il motivo delle arti marziali) una sorta di laica religione che avvicina l’uomo al mistero dell’Essere. Tuttavia nulla di ciò che avrebbe potuto si è effettivamente realizzato: la modernità ha ceduto alla maledizione che la perseguita. Il penetrante occhio orientale che Junichiro spalanca sull’Italia del “miracolo economico”, occhio di testimonianza e di denuncia, si spegnerà così misteriosamente (l’uomo scompare e chi scrive l’accorato memoriale non cessa di cercarlo, nei luoghi della loro vita e nelle pieghe di ricordi che non si rassegnano a morire) dopoché si sarà chiusa, lasciando solo una traccia di “fango” (è il titolo dei due capitoletti, che suggellano, all’inizio e alla fine, la parabola del racconto), la circolarità del libro; un percorso che, nel segno devastante di un cupo trionfo del “progresso” (la tirannia della tecnica, direbbero i seguaci di Heidegger), collega i disastri della guerra ai trionfi della follia speculativa, facendo incontrare Hiroshima e il suo fungo letale con il disastro della fabbrica spregiudicatamente piazzata dalla Chemical & Polimeric Corporation proprio a ridosso di Borgo Sant’Aquila. Già dalle prime battute del romanzo, del resto, si era annunciato con forza il tema della inconciliabilità tra natura e destino occidentale, nella riflessione di Junichiro, e sono pagine belle e profondamente meditate, sulle pietre di Venezia; trionfo provvisorio della dura materia sull’elemento acquoreo, condotto in direzione opposta a ciò che suggerirebbero le filosofie orientali (assecondare la forza dell’avversario per poterlo infine sconfiggere: le case di legno e di tela sui fianchi di inquieti vulcani); una breve vittoria sulla natura cifrata nella fioritura straordinaria ma effimera di architetture sontuose, destinate a veder presto corrosa, dalle forze del mare, la loro granitica bellezza. Con perfetta coerenza, dopo uno straniato vagabondare, il “cinese” sceglie allora di vivere là dove la contesa fra l’uomo e la natura sembra ancora aperta, nella forma di un faticoso armistizio, ai margini dei monti, fra i boschi che impennacchiano i contrafforti prealpini.
Ed è proprio in quei luoghi, dove l’esistenza quotidiana è un andare sofferto fra i disagi, che Junichiro intreccia indelebilmente la sua vita a quella di giovani spaesati e indolenziti da una realtà in brutale transizione. Va così a sciorinarsi un ventaglio di destini, una delle cose più belle di questo libro: sintetici ritratti di umanità “minore” le cui esistenze disegnano suggestive silhouette intarsiando il racconto di allusive lateralità, quasi un affresco collettivo, o una foto di gruppo tratta dal liso tascapane del passato. Un pulviscolo di storia e società, martoriati brandelli di vissuto che, pur di corposa concretezza, sfuggono ad ogni sovrappeso realistico, dal momento che molti dei personaggi rivestono una funzione emblematica, un impegno che li alleggerisce, senza tuttavia farli scivolare in una pura allegoria: c’è il politicante corrotto, dalla riconoscibilissima appartenenza, il ragazzo traviato che si riscatta nel lavoro e nella disciplina delle arti marziali, la ragazza di paese che un triste destino di violenza ha come intrappolato in una adolescenza attonita ed innaturale. La formula “volevamo di più”, con il senso di perdita e di nostalgia che trasmette, vale così anche ad indicare l’irrecuperabilità dei giorni trascorsi, la meravigliosa sostanza di una stagione che ha irripetibilmente accordato speranze individuali e collettive, a poco a poco sbiadite, mentre, alla ricerca del meglio, ci si è negati alla felicità. La riflessione della voce narrante, nel capitoletto intitolato “Fuoco” (invano ho cercato, e non potevo trovarlo, quello dedicato all’“aurora”), a proposito di Barbara, la donna amata, che “mi avrebbe dato dei figli. Loro avrebbero avuto un mondo migliore”, può valere come suggello di questo libro tenero e amaro, abilmente giocato sul doppio registro del personale e del sociale, pulito e onesto come il “cinese” di cui racconta la “biografia” italiana: un’altra generazione si prepara a ripetere gli stessi errori, a costruire sulla disarmonia, su quel miraggio di opulenza che dà risposte solo provvisorie alle più autentiche necessità interiori. Certo, sappiamo che per salvarci non basterà prestare orecchio alla voce del “cinese” (per quanto, curiosa coincidenza, abbia visto la luce proprio nei giorni dell’uscita del libro, un testo di Simone Weil mai tradotto prima in italiano, che additava l’esempio dell’Oriente come antidoto alla “smemoratezza” occidentale). Romanzo inutile, allora? - solo una riflessione disperata? No, perché nulla appare più essenziale, nell’incertezza dell’attuale transizione, in quel vacuo giardino di delizie che è ormai la letteratura alla moda, di ciò che ha il potere di svelarci a noi stessi. Di renderci ancora capaci, spiazzati come siamo tra rovine e miraggi, tra speranze annebbiate di futuro e un presente sporco come il fango, di resistere all’indifferenza, dandoci di nuovo la forza, è proprio il caso di dirlo, di “volere di più”.Speravamo di più
Che Pietro Spirito abbia oramai deciso di misurarsi con il presente, affrontando quei nodi etici, gnoseologici, culturali che appesantiscono il nuovo millennio, anche in casa nostra, di prospettive assai minacciose, lo dimostra l’ultimo dei suoi romanzi, Un corpo sul fondo, pubblicato da Guanda in questo stesso anno (2007). Libro che spicca, rispetto ai precedenti dello stesso autore, anche per la particolare veste tipografica: lo corredano infatti fotografie e disegni (oltre che un corposo bagaglio di note storiche e tecniche, abilmente ricondotte ad una misura linguistica di cordialità comunicativa), quasi a sottolineare l’impegno documentario che il romanzo si è assunto, proprio mentre va a sfiorare un tema quanto mai complesso, con cui il libro civetterà senza mai condurlo a soluzione, quello etico-politico della “verità” in relazione alla memoria. Vi si racconta, per venire al soggetto, il tentativo di ricostruzione da parte di un giornalista dei nostri giorni del disastro avvenuto al largo di Pola nel 1942 del sommergibile italiano Medusa, in esercitazione nelle acque dell’Istria. Sorpreso da un sottomarino nemico era stato affondato, intrappolando nella propria carcassa quattordici uomini che non sarebbe stato possibile mettere in salvo in alcun modo, nonostante gli sforzi dei soccorritori. A motivare le ricerche del giornalista, trasparente alter-ego dello scrittore (che in questo romanzo, come mai prima nei libri precedenti, modella il narratore sul proprio profilo professionale ed umano), un reduce della guerra, tale Domenico, per il quale “passato e presente [sono] un istante unico”. Mosso da oscuri sensi di colpa, di cui il romanzo svelerà a poco a poco le radici, Domenico vuole sapere: sapere se ci sono stati sopravvissuti, sapere a chi vada attribuita la responsabilità del mancato salvataggio, sapere dove giacciono i corpi dei caduti. Inizia qui la lunga spirale di una perlustrazione che coinvolge il narratore-protagonista molto più profondamente di quanto non vorrebbe, toccando in lui tasti psicologici ed umani che lo portano alle soglie dell’incubo, ne scatenano la violenza, finiscono quasi per incrinarne il senso di identità: nella sua ricerca verrà a conoscenza di altre navi naufragate in quelle acque, di cui sono testimonianza resti che ormai il mare ha irrimediabilmente assimilato: storia che ridiventa inesorabilmente natura. Non quelli del sommergibile Medusa però, che sarà impossibile ritrovare, come le tombe dei marinai caduti, che pure i registri delle sepolture affermano inumati in un cimitero di Pola. Il gioco condotto da Spirito è sinuoso e sottile: il giornalista è, o almeno dovrebbe, risultare psicologicamente immune ai più pressanti contraccolpi della sua inchiesta; eppure si lascia a poco a poco prendere, come contagiato dalle indecifrabili smanie di Domenico e della sua affascinante amica, la giovane Vera. La Storia, quella storia, rimane tuttavia per lui chiusa nei limiti dei documenti ufficiali e dei reperti, il guscio vuoto ed inerte di vicende di cui solo coloro che le hanno vissute possono cogliere la vera sostanza umana. Di fronte a lui Domenico, interprete invece di una memoria dolorosamente personale, un grumo che egli vorrebbe sciogliere ritrovando, quasi con funzione catartica, il filo di quel lontano passato; a sua volta intrappolato in una prospettiva parziale delle vicende, parziale e relativa come ogni ricostruzione che abbia come punto di partenza la visuale ristretta di una singola esperienza umana. I due approcci non comunicano né riescono ad integrarsi, entrambi necessari, ma nessuno, preso per sé, risolutivo. Com’è possibile, si chiede Domenico in un momento cruciale dell’intreccio, che “dei miseri pezzi di carta potessero dire a lui com’era stata la sua vita, che cosa era successo allora”? Senza che questa consapevolezza lo faccia desistere dal tentativo di trovare, aiutato da chi per mestiere fa la cronaca della città, quelle tracce e quelle testimonianze che potrebbero dare finalmente ai ricordi sostanza concreta e inconfutabile, dissipando gli incubi che suggerisce una fantasia sempre più cupa. E’ tragico, in questo senso, il romanzo di Spirito, nonostante lo stile affabile, la scorrevolezza narrativa, l’ammirevole capacità di ricondurre a forme di leggibilità gradevole anche i passi più tecnicamente impervi, laddove cioè si descrivono, e non se ne potrebbe fare a meno, le caratteristiche tecniche e militari dei sommergibili classe Medusa. Tragico e insieme tempestivo: mai come in questo momento la memoria, collettiva e individuale, è diventata tema rilevante, sulla ribalta politica europea, sia in prospettiva politico-ideologica che morale. Abbattuti gli idoli di ideologie totalizzanti gli uomini avanzano richieste di riconoscimento per il proprio dolore, per quella sofferenza storica che era rimasta senza voce per colpa degli steccati di dogmi e pregiudizi: il ricordo va indietro, ai tragici fatti che seguirono la seconda guerra mondiale, alle lacrime dei vinti, alle colpe dei vincitori, ai massicci trasferimenti di popolazioni che hanno alloro brutalmente ridisegnato la mappa etnica d’Europa. Una memoria rimossa rientra in gioco, mettendo in crisi i dati ufficiali della conoscenza storica, le convenienze del discorso politico, i valori stessi dell’identità collettiva (proprio ora che sentiamo il bisogno di una sguardo finalmente “europeo”). Ogni cosa va ripensata in relazione a un nuovo baricentro, prendendo atto di sofferenze a lungo sottaciute, ma resistendo – qui lo scrittore tace ma lascia perfettamente intuire – a quei subdoli revisionismi che vorrebbero tutto “imbiancare”, perfino la barbarie nazi-fascista. Pietro Spirito, come ogni narratore autentico, ha “annusato l’aria”, individuando uno dei temi cruciali della nostra epoca, ed è andando tessendo, come una figura di metafora, il suo ultimo romanzo. In esso il problema viene, per così dire, impostato, richiamando la nostra attenzione sulla complessità di esigenze individuali e collettive che non possono essere eluse. L’ultima scena è emblematica: la ricerca si chiude nel cimitero di Pola dove le tombe dei marinai caduti risultano introvabili; Domenico è stanco e deluso, cede i fiori che portava al narratore, con un movimento brusco, ultimativo.

Un corpo sul fondoDiedi un’occhiata intorno per vedere se qualcuno ci stesse osservando. C’era solo un’anziana signora, di spalle, in lontananza. Mi trovavo in un settore dove, a giudicare dalle lapidi, erano sepolti insieme cristiani, musulmani, ebrei in un coagulo di nomi italiani, croati, tedeschi, serbi, bosniaci, sloveni. Con un gesto rapido gettai i fiori a caso fra le tombe.

Il romanzo sembra afflosciarsi in una chiusa sommessa, anzi quasi rinunciataria, se la confrontiamo con il serrato procedere di un libro sempre capace di tener desta l’attenzione. In realtà essa esprime, con quel suo studiato grigiore, l’amarezza di una presa d’atto – vi sono cose del passato che non potranno mai riprendere colore, mai risorgere pienamente alla luce –, e insieme ad essa il sollievo di una speranza. Se è innegabile che importa capire ciò che è stato (e che non è quindi inutile lo sforzo degli storici), più necessario ancora è un atteggiamento di pietas verso ogni forma di dolore umano, quel dolore che continua inesorabilmente a governare la nostra vicenda terrena, nel corpo a corpo con il tempo e la vita, la Storia appunto (non sarà sfuggito ad una lettura attenta che verso la fine del libro Spirito fa scivolare nel racconto un nuovo tema, anzi, nuove immagini, quelle angoscianti della guerra civile jugoslava). E dolore che, refrattario ad ogni semplificazione ideologica, sudario che avvolge ed accomuna tutti i percorsi individuali, anche quelli del ricordo e della memoria (che dobbiamo probabilmente rassegnarci a concepire “divisa”, ancorché non necessariamente conflittuale), può rappresentare un terreno di conciliazione, un primo passo verso orizzonti di solidarietà e comprensione.

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