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IL BANCO DI LETTURA estratto dal 26/2003 |
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da RUBRICHE - a cura di MARIUCCIA CORETTI
STELIO MATTIONI, Tululù, Milano, Adelphi, 2002, pp. 104, € 11
A
cinque anni dalla scomparsa di Stelio Mattioni l'Adelphi, dopo una lunga pausa
durante la quale lo scrittore triestino aveva pubblicato con altri editori,
ritorna a editarlo con un racconto lungo, Tululù, che si trovava nel
cassetto fino dal 1990. Cento e quattro pagine in cui l'autore trasfonde ancora
una volta la sua fantasia venata sì sempre di una certa dose di malinconia
condita da un irrefrenabile impulso di ironia dove l'inverosimile può
sempre attagliarsi al surreale ma dove l'amarezza sua congenita si sposa qui
bene con la felicità più assurda. Perché Matilde, alias
Tululù, alias stupidina, la protagonista di questo racconto, è
una donna speciale, una donna che forse non potrebbe esistere nella realtà,
ma proprio per questo, nella sua umiltà, nel suo essere sempre fedele
a un canone preciso forgiato solo per lei, è più viva che se fosse
vera. É un'icona che ci rimane dentro con quel desiderio di pensare solo
agli altri, mai a se stessa, di trasformare in positivi ogni gesto, ogni parola,
ogni atteggiamento negativi, di non vedere mai il male, di scusare sempre le
persone care, con la convinzione di non meritare nulla e quindi di accogliere
qualsiasi cosa come un dono prezioso.
Matilde è sempre così, è già un dono essere viva,
lei orfana in tenera età, accolta da una parente, seppur malvolentieri,
e mandata ancora adolescente a servizio. Pensa Matilde che non può pretendere
di più, anzi è felice di poter servire prima in casa di un professore
e dopo in quella di una Signora che la fa ridere per le sue barzellette. E accetta
dalla Signora ogni consiglio, pure quello di essere messa incinta, anche se
lei non ha nessun interesse per il sesso, da Bruno, un giovane che la corteggia
e che così si deciderà a sposarla. Bruno infatti la sposerà
e andranno a vivere insieme in un appartamento misero di due stanze e cucina
con il gabinetto comune con gli altri inquilini del piano sul ballatoio. Pochi
mobili tanto da arredare la camera da letto e la cucina, ma per Matilde una
reggia e una felicità smisurata anche se il marito non sta quasi mai
in casa, mangia dalla madre che non gli perdona d'aver sposato una serva e anche
nelle ore di libertà dal lavoro di operaio alle Ferrovie preferisce la
sua casa precedente alla nuova dove soltanto dorme non riuscendo a comperare
nemmeno una culla alla sua bambina la quale viene allogata appena nata in un
paniere. Ma Matilde riesce a scusare tutti questi nei e queste "stranezze"
trovando una ragione per ogni manchevolezza e sentendosi già felice per
aver un marito e una casa e una bambina tutta sua. Tenere a posto la casa è
infatti la gioia più grande per Matilde, sempre pronta a difendere in
cuor suo il marito anche quando le dice che si è licenziato dal lavoro
in attesa di un posto migliore promessogli di sicuro e che intanto non può
più mantenere lei e la bambina insieme alla casa. Così Matilde,
aspettando sempre il posto migliore per sistemarsi in un appartamento più
bello con il marito, ritorna come serva con la bimba dalla Signora che l'accoglie
di nuovo licenziando la nuova domestica e mettendole a disposizione una stanza
anche per la notte. Anzi a poco a poco cerca di sostituirsi alla vera madre
nell'educazione della bambina. Così Assunta, questo è il nome
della bimba, va a scuola fino alla maturità, stando sempre, forse per
interesse, al gioco della Signora e impara da lei quel nomignolo, Tululù,
col quale spesso chiama per scherzo sua madre. Perché Assunta ha capito
da tempo di che pasta è la genitrice e come si è fatta da sempre
imbrogliare non volendo mai credere nemmeno all'evidenza. E come vive in un
mondo tutto suo, in un mondo lontano da ogni possibile realtà, in un
mondo capovolto dove soltanto certi stupidi possono trovare albergo. Perché
Assunta sa che suo padre le ha lasciate per andare con un'altra donna e che
il posto favoloso che sua madre attende sempre anche dopo tanti anni non ci
sarebbe mai stato. Ma Matilde, anche quando non può fare a meno di conoscere
questa realtà, trova il modo di assolvere suo marito, sempre pronta ad
accoglierlo in casa, a differenza della figlia che non vuol saperne di un padre
cosi sconsiderato. Assunta che, alla morte della Signora, ha ereditato da lei
la casa, cioè la villa, che è ora sua, dove Matilde si trova improvvisamente
serva-padrona, anche se la figlia ben presto se ne va lasciandola sola e portandosi
via quasi tutti i mobili e i ninnoli d'antiquariato che le servono per il suo
negozio d'antiquario che ha in città.
Così Matilde da un momento all'altro non ha più nulla da fare,
occupata com'era prima a soddisfare la Signora e poi a tenere pulita tutta la
mobilia. Non ha più da far da mangiare, non ha più da pensare
a qualcuno, come era stata abituata da sempre. Anche una pulizia supplementare
della casa e un riordino del giardino sono finiti presto, anche lo scendere
in città dopo tanti anni che non usciva dalla villa e con la gioia di
indossare gli abiti delle sue nozze, l'ha invece delusa. Deve pur trovare un
modo per essere impegnata. E nella foga di cercare una possibile soluzione alla
sua inerzia coatta si trova a rovistare in cantina fra le cose ammassate un
tempo dal marito della Signora alla quale finalmente non deve più cieca
ubbidienza perché tutto appartiene ormai a sua figlia che d'altra parte
non verrebbe mai a cercare qualcosa in cantina. E trova in una cassa delle maschere,
dei vecchi bambolotti che porta via per ripetere i gesti di una vecchia fattucchiera
che a suo tempo aveva aiutato e difeso. Anzi per smentire le malelingue si mette
a punzecchiare con spilli acutissimi i bambolotti accompagnando la sua furia
con tutti i canti e le filastrocche che conosce, trovando così il modo
per tener occupata la giornata.
Finisce così la parabola terrena di Matilde, la tululù che si
sente viva e felice soltanto quand'è utile a qualcuno, soltanto quando
può esprimersi lavorando, quando può annullarsi per un altro e
dare, dare anche senza aver nulla in cambio.
Parlare del testo è poca cosa: bisogna leggerlo per capire tutte le sfumature
di cui è intessuto, tutti i passaggi che danno nerbo alla pagina, col
punto di vista sempre rivolto su Matilde, che riflette i suoi pensieri, i suoi
stati d'animo, le sue riflessioni, le sue certezze.
É un libro che mette malinconia e gioia insieme, che fa molto meditare:
sulla possibilità d'esser felici anche con poco, accontentandosi sempre,
senza dover arrivare ai paradossi del libro, a quelle esagerazioni estreme che
rendono però originale ed esclusivo un testo. Da Matilde, da una tululù
qualsiasi abbiamo molto imparato, non dalla sua stupidità generale naturalmente,
dal suo semplicismo cretino, ma da certe pieghe dei suoi ragionamenti, da quella
sua felicità limpida, innocente, genuina. Al di là di tutte le
stupidità umane Mattioni ci ha voluto dire che non dobbiamo mai cessare
di sognare come dobbiamo ricordarci che al mondo ci sono ancora delle persone
più o meno semplici le quali fanno dell'abnegazione la loro ragion d'essere,
mortificando se stesse in favore degli altri.