PUBBLICAZIONI FUORI COLLANA

Refoli

di Manlio Cecovini

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REFOLII triestini sono davvero inventori di problemi, come diceva Pietro Pancrazi negli anni Trenta? Consumano davvero il loro tempo a indagare nelle proprie coscienze le ragioni del proprio vivere, come disse più tardi Carlo Bo. Quale lingua parlano in casa, quali pensieri e sentimenti coltivano nella mente e nel cuore? Questo libro, di un triestino giunto ormai alla sua personale resa dei conti - un triestino che alla città ha dato il meglio della sua esistenza -, si propone di spiegare, senza alcuna intenzione didascalica, ma fuori dai miti e dai luoghi comuni, questa sconosciuta Trieste, a chi le s'accosti con simpatia. Non dunque la "Trieste cara al cuore" della retorica patriottarda, ma una complessa realtà, fatta d'entusiasmi e di ripulse, di aperture e di chiusure, forse ancora oggi composta di tragedia come l'aveva descritta Scipio Slataper.

Nato a Trieste nel 1914 Manlio Cecovini ha iniziato la sua carriera nella Magistratura per passare poi nel 1949 all'Avvocatura dello Stato da cui si dimise nel 1979, quando fu eletto al Parlamento Europeo. MANLIO CECOVINIDurante l'amministrazione angloamericana svolse le funzioni di consulente legale e draftman del Governo Militare Alleato. É oggi Avvocato Generale dello Stato onorario. Accanto all'impegno professionale ha sempre svolto un'intensa attività politica e pubblicistica. Leader della "Lista per Trieste", è stato sindaco dal 1978 al 1983, parlamentare a Salisburgo dal 1979 al 1984, consigliere regionale dal 1988 al 1993. La sua produzione giornalistica, saggistica e letteraria conta una trentina di volumi, tra i quali "Ponte Perati" la "Julia in Grecia" (Firenze, 1954); "Straniero in Paradiso" (Trieste, 1970, 1951. "Discorso di un triestino agli italiani" (Milano, 1908): "I migliori di noi" (Udine. 1971): "Per favore chiamatemi von" (Trieste, 1976): "Un'ipotesi per Barbara" (Milano, 1982); "Trieste ribelle" (Milano, 1985): "Nottole ad Atene" (Milano, 1994): "Dare e avere per Trieste" (Udine, 1991-1995. 3 vol.): "Assieme all'albero che deve morire" (Pordenone, 1996).


 

Dal libro REFOLI, il racconto che segue tratto dalla pagina 47...

« LA BORA »

Dicono che la bora non c’è più, non almeno come una volta, s'è ammorbidita, e infatti non si sente più di gente che, costretta a venire a vivere quassù, dopo un inverno si dà ammalata o diventa querula e finisce col trasferirsi in climi più miti. Una volta questo discorso si udiva continuamente, e anche fuori Trieste, una specie di leggenda, questa, della nostra città, bella sì, ridente fra colli e mare ma... e qui la solita tirata sulla bora, questo vento da Siberia che se non t’ammazza subito non è certo perché non ci si provi, e in fondo perché mai uno dovrebbe essere costretto a viverci in un posto così, specie se è nato nel Sud, abituato alle brezze moderate, al sole restauratore, agli inverni addomesticati.
Non si sente più, e qualche volta ce lo domandiamo noi stessi, noi triestini che nella bora siamo nati e in fondo ne siamo orgogliosi come di una forza segreta, d’una testimonianza d’integrità fisica e morale, ci domandiamo se davvero non è più quella di una volta, o se non dipenda invece dalle mutate condizioni di vita, il conforto d’un comodo riscaldamento che ti riceve quasi in ogni ambiente chiuso, la consuetudine dell’automobile e dei mezzi pubblici per gli spostamenti da casa a casa, l’ascensore al posto delle scale.
Quando infatti si subiva la bora? Dico la si subiva senza potervi opporre difesa. Non certo in casa, neppure in quelle più popolari, un fuoco c’era sempre, magari solo in cucina, il monumentale “sparherd” intorno al quale si raccoglieva la vita invernale di tutta la famiglia, i bambini facevano le lezioni, le nonne raccontavano le loro favole, le mamme rammendavano e stiravano, gli uomini fumavano e leggevano il giornale.
Le abitazioni borghesi di qualche pretesa esibivano poi certe imponenti stufe di maiolica, spesso finemente decorate, i cui sportelli di ferro si arroventavano fino a diventare incandescenti. Le camere da letto no, non s’usava riscaldarle, si diceva anzi dai vecchi che era salute dormire nel gelo e, semmai, ai bambini e agli anziani s’infilava tra le lenzuola lo scaldino, che da noi, non so da che lingua mutuato, si chiamava “pluzer”.
Ve n’era di tanti tipi, in ferro e in terraglia. In certe famiglie si usava passare sulle lenzuola il ferro da stiro caldo. In casa mia ricordo di avere sempre visto solo una specie di tozza bottiglia in terracotta, d’un colore rosso fuoco e lucida, con un anello per passarci il dito senza scottarsi. Si riempiva d’acqua bollente e si metteva ai piedi del letto, poi c’era tutto un gioco ad avvicinarlesi senza toccarla finché, smorzato il bollore e attenuato per contro il gelo ai piedi, questi si stendevano in una prolungata deliziosa carezza che conciliava rapidamente il sonno. Già, ma quando?... Quasi mai s’arrivava per giudizio superiore a quell’estrema concessione di mollezze, contrastata dalla ferrea regola che il letto bisogna scaldarlo col corpo, e specialmente i giovani che hanno il sangue caldo, e magari col proprio fiato, questo sì è salute!
Ma proprio in quelle notti gelide, raggomitolati tutti sotto le coperte, ricordo l’urlo della bora che scuoteva la casa dalle fondamenta e faceva trattenere il respiro. Ebbene, era una sensazione piacevole, non certo di ansia o disagio. L’attesa di andare a letto era più intima nelle notti così, e c’era in tutti, evidentissima, una sorta di esilarazione, come per una prova straordinaria alla quale ci sentivamo preparati e che ci avrebbe visti l’indomani vittoriosi.
E come non ricordare le corse a scuola, imbacuccati nei grossi cappotti e con le sciarpe di lana che ci avvolgevano come mummie dal petto alla testa! “Non respirate” era l’ordine materno, e intendeva ovviamente non respirare a bocca aperta, non tirare giù la sciarpa. Ma sì! ... Io non la potevo sopportare la lana sulla pelle, e immaginarsi quella sorta di bavaglio! Fra l’altro, si bagnava subito e quel pelo caldo e umido mi dava un invincibile ribrezzo. Strappavo giù la sciarpa appena dietro l’angolo e respiravo a pieni polmoni, prima m’era parso di soffocare ora avevo voglia di correre, avevo sempre voglia di correre nella bora. E di gridare, tra un refolo e l’altro che si portava via la voce come una foglia secca sbattendola sui muri lontani donde rimbalzava all’infinito.
Eravamo tutti rossi in viso, felici, noi ragazzi. Questo era la bora per noi: corse pazze a strattoni e spinte, una lotta e un divertimento. Una mattina, dopo una di queste notti tumultuose, ci affacciamo alla finestra e guardiamo giù: di fronte si apriva il giardino pubblico, alberi centenari, giganteschi platani e ippocastani che alzavano le loro braccia smisurate fino al nostro altissimo quarto piano. Ebbene, la bora ne aveva schiantato uno proprio lì davanti, fino alla base, una cosa mostruosa a vedersi, questo gigante abbattuto, innaturalmente orizzontale, aveva schiacciato l’inferriata, e occupava parte della strada bloccando il passaggio del tram, rami e stecchi con grandi squarci sparsi dappertutto.
Questo era la bora: tegole che volavano, camini divelti, una volta, nel ventinove, addirittura una motrice del tram rovesciata in riva la mare, e l’immenso fumaiolo della Dreher decapitato.
Ora non c’è più, dicono, ora i ragazzi vanno a letto col termosifone, si alzano la mattina nell’appartamento tutto caldo, zampettano a piedi nudi sulla moquette e vanno a scuola in macchina. Non c’è neanche bisogno del cappotto e infatti non lo portano quasi più. E negli uffici fa fin troppo caldo, e a parcheggiare la macchina si suda, dov’è questa bora?
È. Io la conosco e la frequento. È quassù in Carso, donde non l’hanno potuta cacciare. Ci cammino dentro, la urto di spalla, ne vengo urtato, mi mozza ancora il fiato se la prendo di petto. C’è sì, ma forse s’è un po’ ritirata, bisogna venirla a trovare quassù, sebbene di quando in quando faccia ancora la sua visitina anche giù dal ciglione, in città. Un giorno esco di casa, ed è una di quelle mattine rattrappite dai refoli, sempre più rare ma ce n’è ancora, e vedo gente accoccolata per terra proprio come una volta.
A un tratto da dietro un angolo, come uscendo da un quinta, mi passa davanti sparato un distinto signore di mezza età, il cappello schiacciato sulla testa dalla mano aperta, ma non eretto e magari a gran corsa sotto la spinta della bora, no, lo vedo a mezza altezza, le gambe tese in avanti in posizione seduta, forse a un metro dal suolo, uno spettacolo strabiliante! Suppongo che avesse tentato di accucciarsi al primo impeto d’un refolo e in quell’attimo fosse stato divelto dalle fondamenta. Planò con molto garbo sul suolo ghiacciato e da seduto continuò a scivolare per un pezzo. Dunque, c’è o non c’è questa bora?
Be’, diciamo che c’è sempre meno gente che ama sentire sul viso e sulle spalle la sua rude carezza. Un vento gagliardo al quale noi triestini non vorremmo proprio rinunciare, e non solo per una questione di campanile, ma anche, ormai, perché dobbiamo a lei se la nostra città è immune dallo smog, se l’aria che respiriamo, per merito di questa inesausta scopa celeste, ci consente ancora cieli immacolati che poche città nel mondo si possono più permettere; cieli, per chi sappia levare qualche volta lo guardo al di sopra delle miserie terrene, che inebriano e sollevano lo spirito come un vino frizzante.

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